lunedì 26 ottobre 2009

Tenghe 'o cuore italiane...

Prima l'articolo dell'Espresso, e poi un pezzo di Fabio Piselli, il perito militare che ha contribuito alle indagini sull'affondamento del Moby Prince del 1991 (140 morti).

da http://it.wikipedia.org/wiki/Moby_Prince
Il 16 novembre 2007 un consulente in materia di intercettazioni telefoniche ed ambientali, Fabio Piselli,[2] (ex Parà della "Folgore") di origine livornese mentre stava privatamente indagando sulla morte di un suo cugino impiegato alla Defense Intelligence Agency presso l'ambasciata americana di Roma, ha raccolto delle notizie utili anche per la tragedia del Moby Prince per questo dopo aver incontrato l'avvocato Carlo Palermo per organizzare l'ascolto di un potenziale testimone, è stato aggredito da quattro persone incappucciate che dopo averlo stordito lo hanno successivamente chiuso in macchina alla quale hanno appiccato il fuoco; per fortuna l'uomo è riuscito ad uscire in tempo dall'auto. Fabio Piselli era già stato precedentemente interrogato dalla Procura di Livorno come persona a conoscenza di fatti riguardanti il Moby Prince con particolare interesse verso il monitoraggio elettronico della rada di Livorno avvenuto la sera della tragedia. Inoltre ha partecipato ai soccorsi sin dai primi momenti della tragedia fino al riconoscimento dei resti delle vittime morte a bordo del traghetto. La Procura di Livorno ha aperto un fascicolo per tentato omicidio in danno di Fabio Piselli ad opera di ignoti, la sua auto è stata sottoposta alle indagini scientifiche da parte dei Carabinieri del RIS.

Il relitto del Moby Prince, completamente arso ma ancora galleggiante, è rimasto per anni sotto sequestro nel porto di Livorno. Dissequestrato, sarebbe stato avviato allo smantellamento in un porto della Tunisia, dove sarebbe però affondato nel 1999. Si parla al condizionale perché, a tal proposito, c'è stata una dichiarazione di Roberto Saviano, durante la trasmissione Che tempo che fa, circa il reale destino di quel che restava del Moby Prince. Saviano, infatti, ha affermato che il relitto è stato smaltito dai clan camorristici del Casertano: sarebbe stato dapprima ridotto in pezzi, portato via con una carovana di autotreni e sotterrato in un'improvvisata discarica a cielo aperto nelle campagne di Castelvolturno.

Alle vittime della tragedia del Moby Prince il Comune di Livorno ha voluto intitolare una piazza cittadina; rimane famoso anche lo striscione dei tifosi del Livorno, esposto durante una partita tenutasi allo stadio Armando Picchi: Moby Prince, 140 vittime, nessun colpevole.



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FONTI LA FONTE DELLA ’NDRANGHETA - NUOVE RIVELAZIONI DEL PENTITO: POLITICI E 007 DIETRO LE NAVI DEI VELENI – 30 MERCANTILI NEI MARI ITALIANI E “DISCARICHE” IN SOMALIA – DE MITA SMENTISCE IL COINVOLGIMENTO – SOLDI IN SVIZZERA IN AUTO DIPLOMATICHE DEL SISMI…

Riccardo Bocca per "L'Espresso"
http://espresso.repubblica.it/dettaglio/complotto-sotto-il-mare/2109748//0

L'ex boss della 'ndrangheta Francesco Fonti è soddisfatto e amareggiato allo stesso tempo. «Per anni nessuno ha voluto ascoltare quello che dicevo ai magistrati. Ho sempre ammesso di essermi occupato dell'affondamento di navi cariche di rifiuti tossici e radioattivi.

Ho indicato dove cercare: al largo di Cetraro, nel punto in cui il 12 settembre la Regione Calabria e la Procura di Paola hanno trovato a 480 metri di profondità un mercantile con bidoni nella stiva. Eppure, anche oggi che tutti mi riconoscono attendibile, devo affrontare una situazione assurda: vivo nascosto, senza protezione, con il pericolo che mi cerchino sia la cosca a cui appartenevo, sia i pezzi di Stato che usavano me e altri 'ndranghetisti come manovalanza».

L'altra sera, aggiunge Fonti, «mi ha telefonato Vincenzo Macrì, il consigliere della Direzione nazionale antimafia. Ha detto: "Speriamo che ora non ci ammazzino tutti...". Ecco di cosa stiamo parlando. Di vicende che puntano dritte al cuore della malavita internazionale e delle istituzioni».

Nonostante questo, Fonti, trafficante di droga condannato a 50 anni di carcere, poi diventato collaboratore di giustizia, si sente sereno: «La mia è stata una scelta di vita: mi sono pentito perché ho avuto ribrezzo di quanto fatto da malavitoso, dopodiché succeda quel che deve succedere».

Ecco perché non intende restare in silenzio. «Sono tanti i retroscena da chiarire», assicura. Tantopiù dopo sabato, quando è stato annunciato il ritrovamento lungo la costa cosentina della nave con i bidoni lunga circa 120 metri e larga una ventina: «In questo clima apparentemente più disposto alla ricerca della verità, voglio fornire un mio ulteriore contributo. In totale trasparenza. Senza chiedere niente in cambio, tranne il rispetto e la tutela della mia persona».

Con tale premessa, Fonti squaderna storie di gravità eccezionale e con particolari che, ovviamente, dovranno essere vagliati dagli investigatori. Il suo racconto parte dal 1992, quando l'ex boss spiega di avere affondato le navi Cunski, Yvonne A e Voriais Sporadais dietro indicazione dell'armatore Ignazio Messina.

«Nel dossier che ho depositato alla Direzione nazionale antimafia (pubblicato nel 2005 dal nostro settimanale), ho scritto che in quell'occasione abbiamo inviato uomini del clan Muto al largo di Cetraro per far calare a picco la Cunski, mentre ho precisato che la Yvonne A era stata affondata a Maratea», dice Fonti: «Quanto alla Voriais Sporadais, indicai che a bordo aveva 75 bidoni di sostanze tossiche, ma non segnalai il punto esatto dell'affondamento.


Oggi voglio precisare che la portammo al largo di Melito Porto Salvo, in provincia di Reggio Calabria, sulla costa jonica, e che a occuparsi materialmente dell'operazione fu il boss della zona Natale Iamonte». Di più: «Lo stesso Iamonte», prosegue Fonti, «si è dedicato spesso allo smaltimento in mare di scorie tossiche. Specialmente quelle che provenivano da ditte chimiche della Lombardia».

Nel caso della Voriais Sporadais, precisa, accadde tutto in una notte autunnale del 1992: «Io e il figlio di Natale Iamonte, di cui non ricordo il nome, salimmo sul motoscafo con un terzo 'ndranghetista che guidava e aveva una cassetta di candelotti di dinamite. Arrivammo al limite delle acque territoriali, montammo sopra la nave, facemmo portare a riva il capitano e l'equipaggio, dopodiché piazzammo i candelotti a prua e sparimmo indisturbati».

Fonti non ha problemi ad ammetterlo: «Era una procedura facile e abituale. Ho detto e ribadisco in totale tranquillità che sui fondali della Calabria ci sono circa 30 navi». E non parla per sentito dire: «Io ne ho affondate tre, ma ogni anno al santuario di Polsi (provincia di Reggio Calabria) si svolgeva la riunione plenaria della 'ndrangheta, dove i capi bastone riassumevano le attività svolte nei territori di loro competenza.


Proprio in queste occasioni, ho sentito descrivere l'affondamento di almeno tre navi nell'area tra Scilla e Cariddi, di altre presso Tropea, di altre ancora vicino a Crotone. E non mi spingo oltre per non essere impreciso». Ciò che invece Fonti riferisce con certezza, è il sistema che regolava la sparizione delle navi in fondo al Mediterraneo.

«Il mio filtro con il mondo della politica è stato, fin dal 1978, un agente del Sismi che si presentava con il nome Pino. Un trentenne atletico, alto circa un metro e ottanta con i capelli castani ben pettinati all'indietro, presentatomi nella Capitale da Guido Giannettini, che alla fine degli anni Sessanta aveva cercato di blandirmi per strapparmi informazioni sulla gerarchia della 'ndrangheta.

Funzionava così: l'agente Pino contattava a Reggio Calabria la cosca De Stefano, la quale informava il mio capo Romeo, che a sua volta mi faceva andare all'hotel Palace di Roma, in via Nazionale. Da lì telefonavo alla segreteria del Sismi dicendo: "Sono Ciccio e devo parlare con Pino". Poi venivo chiamato al numero dell'albergo, e avveniva l'incontro».

Il contenuto degli appuntamenti, era sempre simile. «L'agente Pino mi indicava la quantità di scorie che dovevamo far sparire», spiega Fonti, «e mi chiedeva se avessimo la possibilità immediata di agire». La maggior parte delle volte, la risposta era positiva. Ed era un ottimo affare: «Si partiva da 4 miliardi di vecchie lire per un carico, e si arrivava fino a un massimo di 30».

Soldi che venivano puntualmente versati a Lugano, presso il conto Whisky all'agenzia Aeroporto della banca Ubs, o in alcune banche di Cipro, Malta, Vaduz e Singapore. Tutte operazioni che svolgevamo grazie alla consulenza segreta del banchiere Valentino Foti, con cui avevamo un cinico rapporto di reciproca convenienza».

Quanto ai politici che stavano alle spalle dell'agente Pino, secondo Fonti, sarebbero nomi noti della cronaca italiana. «Mi incontrai più volte per gestire il traffico e la sparizione delle scorie pericolose con Riccardo Misasi, l'uomo forte calabrese della Democrazia cristiana», dice, «il quale ci indicava se i carichi dovessero essere affondati o seppelliti in territorio italiano o straniero. La 'ndrangheta, infatti, ha fatto colare a picco carrette del mare davanti al Kenya, alla Somalia e allo Zaire (ex Congo belga), usando capitani di nazionalità italiana o comunque europea, ed equipaggi misti con tunisini, marocchini e albanesi».

Rimane l'incontrovertibile fatto, aggiunge Fonti, «che la maggior parte delle navi è stata fatta sparire sui fondali dei nostri mari». Non soltanto attorno alla Calabria, «ma anche nel tratto davanti a La Spezia e al largo di Livorno, dove Natale Iamonte mi disse che aveva "sistemato" un carico di scorie tossiche di un'industria farmaceutica del Nord».

E non è finita. Secondo Fonti, un altro politico di primo piano avrebbe avuto un ruolo nel grande affare dei rifiuti pericolosi. «Si tratta dell'ex segretario della Dc Ciriaco De Mita, indicatomi a metà Ottanta da Misasi per trattare in prima persona il prezzo degli smaltimenti richiesti dallo Stato».

Stando al pentito, lui e De Mita si sono visti «tre o quattro volte» nell'appartamento del politico a Roma, dove il boss fu accolto «con una fredda gentilezza». Nella prima occasione, ricorda, «mi fece sedere in salotto e disse: "Sono soltanto affari..."; frase che mi ha ripetuto negli incontri successivi, come a sottolineare un profondo distacco tra il suo ruolo e il mio».

Fatto sta, continua Fonti, che «concordammo i compensi per più smaltimenti». Poi, quando l'affondamento o l'interramento delle scorie veniva concluso, «l'agente Pino ci segnalava la banca dove potevamo andare a riscuotere i soldi»". Denari accreditati «su conti del signor Michele Sità, un nome di fantasia riportato sui miei documenti falsi. Andavo, recuperavo i contanti e li consegnavo alla famiglia Romeo di San Luca, dove ricevevo la mia parte: circa il 20 per cento del totale».

Da parte sua, l'ex segretario della Dc Ciriaco De Mita nega qualunque rapporto con Fonti: «Smentisco nella maniera più netta», commenta, «le affermazioni di una persona che non credo di conoscere. Porterò questo individuo innanzi al tribunale per rispondere penalmente e civilmente delle sue calunniose dichiarazioni».

Vero è, specifica De Mita, «che Misasi era mio amico, e che abitava sotto di me, ma tutto il resto non ha assolutamente senso». Una replica alla quale seguono altri racconti dell'ex boss, che dopo il ritrovamento del mercantile sui fondali di Cetraro, non si limita a occuparsi dei retroscena di casa nostra, ma apre una pagina internazionale finora ignota sulla Somalia: «Avevo rapporti personali», dice, «con Ibno Hartomo, alto funzionario dei servizi segreti indonesiani, il quale contattava me e la 'ndrangheta per smaltire le tonnellate di rifiuti tossici a base di alluminio prodotte dall'industriale russo Oleg Kovalyov, vicino all'allora agente del Kgb Vladimir Putin».

Un lavoro impegnativo per le dimensioni, spiega Fonti, gestito in due fasi: «Nella prima caricavamo le navi in Ucraina, a Kiev, le facevamo passare per Gibuti e le dirigevamo a Mogadiscio oppure a Bosaso. Nella seconda fase, invece, le scorie venivano affondate a poche miglia dalla costa somala o scaricate e seppellite nell'entroterra».

Facile immaginare le conseguenze che tutto ciò potrebbe avere avuto sulla salute della popolazione. E altrettanto facile, secondo Fonti, è spiegare come le navi potessero superare senza problemi la sorveglianza dei militari italiani, che presidiavano il porto di Bosaso: «Semplicemente si giravano dall'altra parte», racconta il pentito.

«Anche perché il ministro socialista Gianni De Michelis, che come ho già raccontato all'Antimafia gestiva assieme a noi le operazioni, era solito riferirci questa frase di Bettino Craxi: "La spazzatura dev'essere buttata in Somalia, soltanto in Somalia". Naturale che i militari, in quel clima, obbedissero senza fiatare».

Allucinante? Incredibile? Fonti allarga le braccia: «Racconto esclusivamente episodi dei quali sono stato protagonista, e aspetto che qualcuno si esponga a dimostrare il contrario». Magari, aggiunge, «anche su un altro fronte imbarazzante: quello delle auto sulle quali viaggiavo per recuperare, nelle banche straniere, i soldi avuti per gli affondamenti clandestini dei rifiuti radioattivi».

Gliele forniva «direttamente il Sismi», dice, «con la mediazione dell'agente Pino. Per salvarmi la vita, in caso di minacce o aggressioni, mi sono segnato il tipo di macchine e le matricole diplomatiche che c'erano sui documenti».

In un caso, «ho usato una Fiat Croma blindata con matricola VL 7214 A, CD-11-01; in un altro ho guidato un'Audi con matricola BG 146-791; e in un altro ancora, ho viaggiato su una Mercedes con matricola BG 454-602. Va da sé, che ci venivano assegnate auto diplomatiche perché non subivano controlli alle frontiere».

Ora, dopo queste dichiarazioni, «i magistrati avranno nuovi elementi sui quali lavorare», conclude Fonti. «Troppo facile e troppo riduttivo», sostiene, «sarebbe credere che tutto si esaurisca con il ritrovamento nel mare calabrese di un mercantile affondato». Questa, aggiunge, non è la fine della storia: «È l'inizio di un'avventura tra i segreti inconfessabili della nostra nazione. Un salto nel buio dalle conseguenze imprevedibili».

[17-09-2009]

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la "verità inclusa" del Moby Prince...
Inviato da: Fabio Piselli
01/09/2009 3.59

http://www.fabiopiselli.com/


i prossimi mesi saranno quelli che, presumibilmente, ci consentiranno di ricevere dalla procura procedente una risposta definitiva relativamente le indagini giudiziarie condotte sulla tragedia che oltre 18 anni fa ha causato la morte di almeno 140 persone; risposta probabilmente più compatibile con una verità storica dei fatti che non giudiziaria

la riapertura delle indagini, grazie all'impulso del Dottor Palermo, ha sviluppato dei filoni investigativi tali da raggiungere delle conoscenze importanti, non sconosciute ma rese ignote per tutti questi anni da parte di chi aveva il dovere di evidenziarle per offrire ai parenti delle vittime tutte le opportunità di ricerca delle ragioni della morte dei loro cari

ho sempre detto, assumendone le piene responsabilità, che in questa faccenda i militari in generale, italiani e stranieri, hanno avuto un ruolo importante, perchè avrebbero potuto sin da subito favorire delle conoscenze mantenute invece segrete utili se non a riconoscere delle responsabilità quantomeno ad escluderne altre, ad iniziare dalla nebbia o dalla ventilata imperizia del comandante Chessa, perito nella tragedia

quando i militari tacciano c'è sempre qualche ragione di sicurezza, qualche superiore interesse di Stato, qualche significativa causa che la collettività non deve conoscere, spesso più per delle regole tutte interne le amministrazioni militari che per lo "spessore del segreto", senza capire che è proprio lo "spessore del segreto" che stimola la collettività a formulare le ipotesi più fantasione, rischiando di entrare in un circuito autistico di disegni complottistici o di conflittuali schieramenti

il segreto è ciò che ha caratterizzato le grandi stragi del nostro paese, siamo sostanzialmente cresciuti col trauma del segreto, del non dover sapere le ragioni dei grandi botti, degli inspiegabili incidenti, dagli aerei ai traghetti, tanto da patire una sorta di "sindrome di Ustica" che si aggrava ad ogni nuovo tragico evento insoluto o dimenticato per decenni negli scatoloni lasciati chiusi negli uffici di qualche procura

auguriamoci perciò che il pool di magistrati livornesi possa offrirci quello che nessuno fino ad oggi è riuscito a fare nelle indagini delle grandi tragedie, offrici il "non segreto", che non significa la verità giudiziaria, ma che significherebbe un cambiamento importante per la collettività di questo paese

sarebbe bello assistere ad una conferenza stampa nella quale dei magistrati abbiano il coraggio di superare ogni vincolo di segretezza, per dire ai cittadini le ragioni che hanno meritato il segreto stesso

sarebbe bello ascoltare parole certe che sappiano spiegarci che quella notte mentre il Moby Prince bruciava, mentre almeno 140 persone stavano morendo, non c'era la nebbia che c'hanno imposto per anni

che quella notte c'erano più navi militarizzate dalla Difesa americana cariche di armi ed esplosivi, rese segrete ed avallate tali dalle autorità italiane

che quella notte c'erano presumibilmente dei militari italiani nell'area d'interesse della tragedia per ragioni legate ad altre navi con carichi segreti, forse armi, forse rifiuti tossici, dirette in Somalia

che quella notte c'erano orecchie elettroniche ed occhi umani capaci di captare e di vedere quel che presumbilmente è ancora oggi documentato in qualche archivio militare, certamente americano ma forse anche italiano

questo non significa che dei militari o dei trafficanti o dei soggetti terzi abbiano avuto delle responsabilità dirette nelle cause della tragedia che ha ucciso almeno 140 persone; ma fanno parte delle con-cause, lo dico ora come l'ho testimoniato a suo tempo assumendomene le dovute responsabilità, che probabilmente dovrò affrontare avanti l'assenza di una verità giudiziaria, motivo per cui coloro che ho indicato mi chiederanno il conto, magari solo per essere stati messi in imbarazzo davanti ai propri segreti durante i confronti o gli interrogatori che li ho costretti a subire

rimango certo del fatto che se vogliamo almeno iniziare ad abbattere quel muro di gomma che ha caratterizzato le grandi tragedie italiane, quella di Ustica ne è un chiaro esempio, qualcuno debba necessariamente assumersi il rischio di restare sotto il suo peso

questo è ciò che coscientemente ho fatto con la mia testimonianza, che è un dovere e non un atto eroico; ho cercato di abbattere quel muro; che altro non era che il "segreto" che impediva non di conoscere la verità assoluta, ma di escludere le altre ipotizzate, consentendo così di approfondire degli indirizzi investigativi invece abbattuti dalle "verità incluse", come la nebbia per esempio

di fronte al "non sapere" è corretto ipotizzare uno scenario a 360°, dal semplice evento imprevisto ed incidentale alle ipotesi più complottistiche, visto anche la storia del nostro paese; quel che non è corretto fare, a mio avviso, è includere una verità per escludere le ipotesi contrarie

la "verità inclusa" non serve infatti ad escludere una ipotesi di verità, ma ad impedire le ipotesi di verità contrarie a quella inclusa

questo è il vero muro di gomma eretto a tutela non del segreto ma della "verità inclusa" che presumibilmente nasconde dei segreti

questa è la ragione per la quale delle semplici ipotesi di verità, magari anche fantasiose, alla fine a causa di questo meccanismo diventano delle ipotesi di complotto

con la mia testimonianza ho desiderato tentare di abbattere la "verità inclusa" introducendo un'altra ipotesi di verità, degna di approfondimento in forza di come è stata raggiunta, nettamente contraria ed opposta alla "verità inclusa"

il muro di gomma lo si abbatte con l'abbattimento dei segreti, questo ho cercato di fare, cosciente del rischio, abbattere dei segreti che ho ritenuto di riconoscere per le ragioni del mio lavoro e degli eventi in cui ero coinvolto, cosciente del fatto che laddove fossi riuscito a dimostrare una verità diversa sarei stato "un eroe" in caso contrario solo un "presunto millantantore"

personalmente considero i segreti del Moby Prince un muro di sterco e non di gomma, perchè su quello di gomma ci si rimbalza, con l'opportunità di tornare a scontrarsi, in questo caso contro il muro di sterco eretto a tutela di cosa c'era intorno sopra e sotto il Moby Prince ci si sporca e basta

la procura di Livorno ha una grande responsabilità di fronte alla collettività italiana, quella di creare un precedente, offrendo una non-verità giudiziaria ma evidenziando allo stesso tempo una verità storica

ha una scelta che richiede coraggio per essere compiuta, perchè potrebbe tranquillamente dire cosa non sono riusciti a dimostrare rispetto le ipotesi investigative, perchè prive di elementi probatori idonei per l'attribuzione di responsabilità precise, concludendo l'indagine con una archiviazione e tutto finirebbe nei tecnicismi giuridici

oppure può offrire questo ma con l'aggiunta del riconoscimento della verità storica, dicendo cosa è accaduto quelle sera intorno al traghetto, prima durante e dopo le fiamme, come presumibilmente emerso dalle indagini, fatti che purtroppo non hanno quel valore tecnico-giuridico per essere considerate prove all'interno di un dibattimento per cui tutto finisce con una tecnica richiesta di archiviazione

ai fini giuridici cambierebbe poco ma sarebbe un segnale importante la presa di posizione di una procura della Repubblica contro i detentori di segreti o coloro che impongo la "verità inclusa"

consentirebbe una profonda iniezione di fiducia nei confronti di una magistratura ed un apparato investigativo debole e burocratizzato; debole soprattutto per la mancanza di testimonianze, specialmente quelle contro i muri di gomma...

Fabio Piselli

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