lunedì 28 dicembre 2009

Borsellino now redux

Esce in questi giorni (tramite il Fatto quotdiiano) l'ormai famosa intervista a Borsellino, quella dei cavalli di Mangano per intenderci; finalmente è completa, integrale, dura 55 minuti, perchè forse non tutti avevano notato che l'altra aveva subito un montaggio che spostava qua e la qualche parola chiave detta dal giudice, non tanto stravolgendone il significato finale (nell'integrale Borsellino dice che la famosa telefonata dei cavalli è tra Mangano ed un Inzerillo, e non con Dell'Utri) ma più che altro svuotandola di dettagli interessanti.
Quello che si nota subito, è la prudenza di Borsellino nel rispondere su fatti che ha visionato e su cui ha lavorato, e la riluttanza a rispondere di fatti che sono sotto inchiesta da altre parti o di cui non ha competenza, malgrado i due giornalisti francesi lo incalzino molto a proposito dei rapporti tra Berlusconi-Dell'Utri-Mafia; resta quasi l'idea che i due giornalisti se ne rimangano insoddisfatti da quello che riferisce loro il giudice.
Insomma, rimediateve cinquantacinque minuti de tempo e vedetevela tutta.

venerdì 18 dicembre 2009

Pallonari

Robbabbona. E' andata in onda poche sere fa su La7, a "Niente di Personale" di Piroso, la docu-fiction sulla vicenda Calciopoli, che è bella proprio perchè è piena di quelle robbette che ce piaciono na cifra; frodi, ricatti, pianti, ladri, puzzoni, mazzette, mafiosi, pelati, venduti, rubboni, laziali, juventini, fallacci, ricatti, minacce, ministri. Insomma tanto viscidume, che amiamo, compreso in un'oretta di documentario piacevole da seguire pur per chi nun ce capisce na ceppa di calcio e se ne strafotte.

PS: Lazio merda
PS2: Non sarete gli unici a notare che dal documentario manca totalmente qualsiasi accenno all'Inter che, è anche vero, all'epoca non lottava per nessun titolo in campionato. Ora non fate i maligni e malpensanti che tirano fuori la facile associazione Inter = Moratti = Tronchetti Provera = Telecom = Centro Per La Raccolta Delle Intercettazioni.
Non sarebbe giusto...ma a noi che kazzo ce frega della giustizia!!!
Sono 11 parti.

martedì 15 dicembre 2009

Se ne andrà quando lo vorrà

Zoro rules!

Qui sse sana

Sanitari...ottima puntata di Report, special guest er Ciarra.

Report torna a occuparsi di sanità. I protagonisti però stavolta sono ‘I signori’ della sanità privata accreditata. A gestirla ci sono alcuni capifila della finanza e dell’economia del Paese, come Rocca e De Benedetti, che hanno fiutato l’affare e investito pesantemente in questo settore che è sempre più allettante. Ma non sono certo i soli, con loro ci sono anche Rotelli, Angelucci, Sansavini, Miraglia, Garofalo: imprenditori più o meno noti che hanno fatto della sanità il core business delle loro società.
L’offerta privata accreditata varia da regione a regione, ma per tutte la prima voce di bilancio è proprio la sanità, che muove fino all’80% delle risorse totali. A livello nazionale questo significa 105 miliardi di euro, di cui oltre 20, complessivamente, sono destinati al rimborso di prestazioni e servizi erogati dai privati.
Quella dei privati che fanno sanità pubblica è una rete fitta e multiforme, all’interno della quale spesso si manifesta l’eccellenza. Nelle storie dei grandi protagonisti del settore non mancano le carriere imprenditoriali strabilianti, i colpi di fortuna, gli investimenti coraggiosi, la passione irrefrenabile per l’editoria. Ma, a volte, vista anche la posta messa sul tavolo, emergono anche i rapporti poco trasparenti con la politica e con i diretti concorrenti. A volte il gioco si fa sporco e sul tavolo spuntano truffe e scandali.
L’inchiesta di Alberto Nerazzini attraversa tutto il Paese. Dove anche le inchieste della magistratura che sembrano occuparsi di tutt’altro alla fine finiscono per toccare un nervo scoperto del Paese: quello della sanità.

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Rosy Bindi scrive a "Report"
A seguito dell'inchiesta andata in onda il 6 dicembre, riceviamo la nota che segue, a firma del Vicepresidente della Camera dei Deputati, on. Rosy Bindi

L'inchiesta di Report sui rapporti tra sanita'pubblica e privata, andata in onda domenica 6 dicembre, getta ombre inaccettabili sul mio comportamento di ministro della Sanita' nella vicenda dell'ospedale San Raffaele. Il montaggio di alcune brevi risposte, estrapolate da una mia lunga intervista presenta una lettura incompleta e deformata e lascia intendere che avrei favorito prima don Verze' e poi la famiglia Angelucci mentre non si capisce quale fosse l'interesse pubblico che stavo perseguendo. Per correggere le distorsioni emerse e ristabilire la verita' dei fatti e la correttezza del mio operato vi chiedo quindi di dare conto ai telespettatori delle vostre omissioni con questa mia precisazione.

1. Occorre chiarire che l'obiettivo era dare una nuova sede all'Istituto Tumori di Roma e non acquistare l'ospedale di don Verze' a Roma.
Il Ministero cercava da tempo una nuova e migliore sistemazione per l'Istituto dei Tumori di Roma, allora ospitato nei locali del tutto inadeguati dell'ospedale Regina Elena. L'ospedale creato da don Verze' non decollava sul mercato privato e non prendeva corpo l'intesa tra Ministero dell'Universita', Regione Lazio, Policlinico Umberto I per l'istituzione di una seconda facolta' di medicina alla Sapienza, che avrebbe avuto sede nella struttura di don Verze'. Quando nel '98 la Fondazione Monte Tabor si dichiaro' disponibile a vendere la struttura di Mostacciano, gli IFO (Istituti fisioterapici Ospitalieri) avviarono una trattativa che si concluse dopo diversi mesi, il 26 maggio del '99, con un accordo preliminare di acquisto per 201 miliardi di lire, dopo la valutazione dell'Ute (Ufficio tecnico erariale). Ma don Verze' preferi' cedere l'ospedale, unitamente ad alcuni terreni sulla Via Appia, al gruppo Angelucci per 270 miliardi di lire.

2. Non c'e' alcun mistero nella differenza di prezzo tra l'offerta a don Verze' e quella alla famiglia Angelucci.
La nuova trattativa tra gli Ifo e la Tosinvest inizia d'intesa con la Regione e il Comune di Roma, con l'obiettivo di una generale riorganizzazione dell'offerta sanitaria nella capitale. Si prevedeva di spostare l'Istituto dei tumori al San Raffaele di Mostacciano, mentre l'Ospedale Sant'Andrea, opera incompiuta da trent'anni, sarebbe stato completato per divenire la sede della seconda Facolta' di medicina della Sapienza. La Tosinvest avanzo' una richiesta di 384 miliardi di lire. Il 14 aprile 2000 Ministero, Regione Lazio e Comune di Roma firmano un accordo di programma che, sulla base di una relazione tecnica della societa' Risorse per Roma Spa, incaricata di fornire la valutazione economica, stabilisce in 320 miliardi di lire il prezzo complessivo per l'acquisto dell'ospedale, delle sue pertinenze e delle sue dotazioni strumentali. Per spiegare la differenza di prezzo tra l'offerta a don Verze' nel dicembre '98 e quella alla Tosinvest, e' bene ricordare che nell'aprile del 2000 il complesso ospedaliero era stato ampiamente modificato. In particolare erano state realizzate opere di completamento di aree funzionali gia' rilevate a grezzo nel dicembre '98 e si era provveduto a sostanziali miglioramenti di quelle gia' realizzate: completate 5 camere operatorie e in via di completamento 7 mila mq dell'area delle degenze. Era stato inoltre realizzato lo sbancamento di 60 mila metri cubi di terreno per rendere fruibili tre piani seminterrati, inagibili al momento della prima valutazione. In ogni caso, l'accordo programmatico registrava un'intesa tra istituzioni pubbliche, finalizzata a migliorare la qualita' dell'offerta sanitaria. Non era vincolante dal punto di vista civilistico, in attesa della valutazione sulla congruita' del prezzo - in ogni caso prevista - da parte dell'Ute.
3. Non avrei mai firmato l'accordo stipulato il 13 luglio del 2000 tra la Tosinvest e i nuovi vertici della sanita' e della regione.
Pur avendo concordato un prezzo finale di 315 miliardi di lire, l'accordo prevedeva infatti clausole ben piu' onerose dei 5 miliardi di risparmio vantati all'epoca dalla giunta Storace:

- gli Ifo sono subentrati in tutti i contratti per la gestione della struttura di cui sono titolari ditte riconducibili prevalentemente alla societa' Tosinvest;
- gli Ifo hanno assorbito 266 unita' di personale Tosinvest;
- gli Ifo cedono a una Fondazione della Tosinvest l'uso di una palazzina di circa 1.500 metri quadrati in comodato gratuito per 99 anni.

In questa vicenda ho sempre tutelato l'interesse pubblico e la qualita' del Ssn. Il risultato e' stato quello di creare a Roma un polo oncologico degno di questo nome, che oggi ha sede nell'ospedale di Mostacciano, e di completare l'ospedale Sant'Andrea che ora funziona come seconda Facolta' di medicina della Sapienza.

Rosy Bindi


- Non abbiamo mai lasciato intendere che la Bindi abbia favorito Don Verze' e Angelucci, anzi.
- Che l'obiettivo del ministero fosse trovare una sede adeguata all'Istituto del tumori Regina Elena lo abbiamo detto chiaramente (Lo dice l'autore fuori campo e lo ribadisce l'On. Bindi nell'intervista)
- Che i prezzi uscissero da valutazioni e' altrettanto chiaro (e secondario)
- Che l'On. Rosy Bindi non abbia firmato l'accordo del 13 luglio 2000 lo abbiamo detto in maniera molto piu' chiara di quanto faccia lei stessa nella nota, ricordando l'avvicendamento dei protagonisti politici, spiegando che l'affare per gli Angelucci e' l'inserimento di clausole e controclausole, ribadendo che a concludere la trattativa furono Storace e Veronesi
- A domanda precisa ("Li avrebbe mai tirati fuori quei 320 miliardi?") la Bindi risponde: "Penso di no! direi proprio di no!", avrebbe dovuto dire cio' che scrive oggi, ovvero che nell'accordo del 14 aprile del 2000 si stabiliva opportuno il prezzo di vendita: 320 miliardi di lire

lunedì 7 dicembre 2009

Umanesimo

Riporto un video della deposizione di Riina al processo per le bombe agli Uffizi di Firenze; perchè pure chille bravo guagliuncello di Riina ha qualcosa di credibile in quello che dice, se in fondo anche a Spatuzza (che ha materialmente sciolto un bambino nell'acido) viene data grande credibilità vista la grande quantità di persone incazzate che ha partecipato al "No B Day" (che putacaso è capitato proprio il giorno successivo alla deposizione di Spatuzza a Torino, live Skytg24 per quasi tutta la durata, fatto di per sè molto particolare), e preparata, manco fosse la finale del Superbowl, da uno spottone fenomenale di Fini (con un Trifuoggi che quasi rimaneva sorpreso dalla spontaneità e dalle cose che gli stava riferendo lo stesso Fini).
Comunque tornando a Riina, nella deposizione, risalente al 2004, tira fuori parecchi elementi interessanti; l'aereo che volava sopra l'auto di Falcone al momento dell'esplosione della bomba, l'hotel sul Monte Pellegrino (in realta' Castello Utveggio) base del servizio segreto da cui si osservò l'esplosione di Via D'Amelio (Borsellino), il mafioso Di Carlo che ricevette le visite dei servizi americani, inglesi ed israeliani quando era detenuto in Inghilterra, etc, etc. Che poi siano vere o no lo si vedrà, intanto prendiamo atto che sono state dette; così come si dovrebbe fare con quello che riferisce Spatuzza.
La domanda chiave che segue a ciò che riferisce Riina è sempre quella classica: "Perchè?"
"Perchè", ad esempio, "Falcone avrebbe dato fastidio a CIA, MI6 e Mossad tanto da volerne l'eliminazione fisica?"
Ci potebbero essere varie risposte giuste, o semplicemente nessuna. Una valida potrebbe essere perchè Falcone c'aveva baffi e barba troppo lunghi, oppure perchè era un ciccione, oppure semplicemente perchè voleva riaprire le indagini su GLADIO.
Boh, si vedrà.

PS: Per i masochisti più infojati, date pure una letta a questo capitolo de "Il libro nero della Repubblica" di Rita di Giovacchino del 2003.

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Dossier Mafia&Servizi Segreti (V puntata): Scacco al re - 23-2-08
di Giorgio Bongiovanni - Megachip

Quinta puntata (leggi la prima, la seconda e la terza e la quarta) del dossier di Giorgio Bongiovanni, già pubblicato su "Antimafia Duemila"; il periodico che dirige.
Quando si verificò la strage di Capaci il clima attorno a Giovanni Falcone era pressoché il medesimo dell'Addaura. La sua ardita scelta di continuare la lotta alla mafia dalla stanza dei bottoni, dall'ufficio degli Affari Penali del Ministero di Grazia e Giustizia, alle strette dipendenze, cioè, del Ministro Martelli, non era stata compresa quasi da nessuno. Le critiche gli erano piovute da tutti i lati, chi in buona fede, chi no.

Agli amici più stretti, preoccupati per la sua decisione praticamente obbligata dato l'ostruzionismo che viveva a Palermo, aveva detto: "Posso anche essere più intelligente di Martelli! Aspettate e vedrete!".

E aveva avuto ragione perché in breve tempo era riuscito a far firmare al Ministro provvedimenti importantissimi e soprattutto era riuscito ad istituire la superprocura antimafia che avrebbe dovuto presiedere. Ma sembrava che nemmeno questo incarico gli sarebbe stato affidato, nonostante fosse lui l'ideatore dell'ufficio e il massimo esperto in assoluto in temi di criminalità organizzata.

Quindi, sempre isolato, sempre osteggiato, quel 23 maggio 1992 Giovanni Falcone, accompagnato dalla moglie Francesca Morvillo, prese il suo ultimo volo per Palermo. Della deflagrazione che a Capaci sconquassò l'autostrada e distrusse la vita dei due magistrati, dei ragazzi della scorta e delle loro rispettive famiglie si è detto e scritto molto. Ma mentre gli anni trascorrono questa strage come le altre sprofonda nelle sabbie mobili dei misteri irrisolti che rimandano puntualmente alla "convergenza di interessi" nel movente e all'altrettanto usuale traccia dei "servizi" nella pianificazione e nell'esecuzione.

Mentre era detenuto in Inghilterra Francesco Di Carlo trascorreva le sue giornate con Nizzar Hindawi, un soggetto di origine palestinese che aveva lavorato nei servizi segreti siriani, coinvolto nell'attentato all'aereo di linea caduto in Gran Bretagna che provocò la morte di circa 300 persone con il quale, spiega, aveva stretto un'intima amicizia. Un giorno, racconta il collaboratore, "era già avvenuto il tentativo di uccidere Falcone nella sua villa dell'Addaura. Fece venire gente da Roma. Mi dissero che in Italia c'era chi lavorava a togliere di mezzo Falcone. E chiedevano un aiuto. Io gli indicai mio cugino Nino Gioè. Poi so che si sono incontrati. Lui mi disse: ‘Hanno mezza Italia nelle mani, possiamo fare tante cose'. Io avevo avuto per amico un generale che comandava i servizi segreti (il generale Santovito, ndr.) a Roma. Era una persona per bene, però era il capo dei servizi segreti. Perciò capivo un po' di servizi e quello che c'era sotto. E allora mio cugino cercavo di guidarlo: ‘Sì, fanno favori, però vedi che al minuto opportuno scaricano, stai attento sempre'. L'unica cosa che potevo dire era questa. Non lo so si era poi esposto tanto, perché l'ultima volta che l'ho sentito, Nino era molto preoccupato.

Poi l'hanno arrestato e ha fatto la fine che ha fatto".Gioè si suicidò in carcere il 29 luglio 1993 e sebbene non vi siano dubbi sulle modalità del suo gesto, ne permangono sulle ragioni che lo hanno indotto a compierlo. Anche perché Gioè interpreta in quegli anni tremendi della strategia stragista una parte tra le più inquietanti. "Fu un vero suicidio – si domanda il pm Luca Tescaroli nella requisitoria – o una morte procurata per impedire una collaborazione con possibili effetti destabilizzanti su apparati deviati dello Stato? E al riguardo va ricordato che Gioè non è stato solo colui che venne in contatto con i personaggi indicati da Di Carlo, ma è stato il soggetto che aveva avviato quella sorta di trattativa durante la fase preparatoria della strage di Capaci avente ad oggetto il recupero di opere d'arte di provenienza furtiva, a fronte di benefici carcerari per boss mafiosi, quello stesso Bellini che insufflò l'idea in seno a Cosa Nostra, gia nel corso del 1992, di colpire i beni appartenenti al patrimonio della nazione (la Torre di Pisa) e che risultò in contatto con appartenenti al Nucleo tutela del patrimonio artistico dei carabinieri prima, e con ufficiali del Ros e della Dia, poi".Sei mesi più tardi Di Carlo ricevette in carcere un'altra visita, questa volta molto meno cortese.

Raccontò infatti che una sera si ritrovò in una stanza piena di persone; a lui si rivolsero in quattro, qualcuno parlava italiano ma l'accento era maggiormente americano-inglese. Gli chiesero informazioni sul caso Calvi e lo minacciarono. Di Carlo si chiuse in un mutismo, ma l'incontro lo aveva preoccupato molto tanto che scrisse una lettera al cugino Gioè perché riferisse dell'accaduto a Riina. Ebbe poi rassicurazione che il capo di Cosa Nostra si sarebbe occupato personalmente della faccenda.

Il fatto fu clamorosamente confermato in aula durante il processo per la strage di Capaci quando un difensore chiese dell'episodio che poteva essere a conoscenza solo da chi era informato degli incontri, cioè da qualcuno degli imputati della Cupola. Di Carlo in seguito, come precedentemente accennato, si rifiutò di aggiungere particolari di cui era a conoscenza, per sfiducia in certi "apparati dello Stato".

Mentre Giovanni Falcone e la moglie Francesca Morvillo morivano in ospedale e la Procura di Caltanissetta disponeva il sigillo sia degli uffici che dell'abitazione del giudice, qualcuno, probabilmente in grado di oltrepassare tranquillamente qualsiasi divieto, si introduceva nella sua casa di Roma da dove sparì per un certo periodo di tempo il databank Casio in cui Falcone annotava appunti e considerazioni per poi riapparire misteriosamente, manomesso, alla fine del mese di giugno, e nel suo studio di via Arenula dove, allo stesso modo, veniva violato il contenuto del computer portatile Compaq. Secondo gli inquirenti, tra l'altro, il lavoro era stato eseguito maldestramente lasciando evidenti tracce di manipolazione. Per quale fine?

Il consulente della Procura di Palermo Gioacchino Genchi, sentito a processo, ha provato a fornire una risposta al quesito: "Bisogna bilanciare la malafede, l'incapacità o la volontà di dissimulare simulando, perché a volte ci si può fingere estremamente imbecilli per far sembrare tutto quello che si fa come frutto di un'attività puerile".Rimane avvolto nel mistero anche un altro dei tanti elementi inquietanti di questo processo: il ritrovamento, tre giorni dopo l'esplosione, di un bigliettino con su scritto: "Guasto numero 2 portare assistenza settore numero 2.GUS, via Selci numero 26, via Pacinotti" seguito da un numero di cellulare 0337/806133. Dalle prime indagini l'utenza telefonica risulta in uso a tale "Lorenzo Naracci, funzionario appartenente al Sisde, servizio segreto civile".Il Gus, Gestione unificata servizi, è una società di copertura dei Servizi Segreti e Naracci è stato vice capo della struttura informativa di Palermo e ha lavorato con Bruno Contrada sia a Roma che a Palermo.

Il Gus ha sede in via In Selci a Roma mentre in via Pacinotti a Palermo, si trova la Telecom e il "guasto numero 2" indica la probabilità di una clonazione in atto. Tante, tantissime informazioni in un solo bigliettino, forse troppe."L'ipotesi di una convergenza di interessi di settori deviati dei servizi segreti – scrive il pm Tescaroli nella sua requisitoria – viene corroborata dal rinvenimento di questo bigliettino", tuttavia "ci si deve chiedere, in effetti: come mai un biglietto con un'annotazione relativa al nome e alla sede di una società del Sisde, nonché ad un numero telefonico di un funzionario appartenente alla medesima struttura siano stati rinvenuti in quel luogo proprio nella immediatezza dell'eccidio? Quando, da chi e per quale motivo è stato fatto ritrovare quel sito?"Domande senza risposta. Depistaggio? Mezza verità? Mezza Menzogna? Difficile pensare che gli agenti dei servizi segreti che agirono sul teatro della strage, come è risultato dalle indagini, si siano distrattamente persi un foglietto così "esplicativo". E quell'indicazione di clonazione telefonica che rimanda proprio a quello strano giro di telefonini che ruota attorno alla strage di Capaci?

Le investigazioni porteranno ad una specie di agenzia esperta in clonazioni presso cui si servivano anche i mafiosi: lo si scoprirà grazie ai collaboratori di giustizia che rivelano che gli stragisti sul posto fece uso proprio di telefonini clonati. Che, però, lasciano traccia. Qualcuno infatti si era premunito utilizzando, il giorno della strage, un telefonino fantasma, cioè apparentemente disattivato, per chiamare un numero del Minnesota, negli Stati Uniti. Un'inquietante coincidenza con la strage in cui morì il Giudice Istruttore Rocco Chinnici, quando l'Fbi intercettava un mafioso di primo piano Gino Mineo al telefono con un anonimo interlocutore di Palermo che lo informava dell'esito dell'eccidio.

Dell'interessamento dei cugini d'America sui grandi delitti siciliani e proprio su quello di Falcone ha parlato chiaramente anche Antonino Giuffré, l'ex braccio destro di Bernardo Provenzano. Disturbati dall'attività del magistrato che aveva ampiamente varcato l'oceano i Gambino, una delle cinque potentissime famiglie di New York, aveva inviato addirittura il proprio avvocato ad interloquire con i cugini italiani affinché si comprendesse l'entità delle dichiarazioni di Buscetta e soprattutto affinché si provvedesse a fermare questo Falcone. Riina, tramite Giuffré, che aveva titolarità a parlare con gli americani grazie al suo legame di parentela, da parte della moglie, con gli Stanfa di Philadelphia, aveva inviato rassicurazioni in merito. E la "malafigura" fatta all'Addaura era stata riparata a Capaci. Nonostante le manomissioni i consulenti della Procura, grazie agli ingegneri della Casio, riuscirono a recuperare la memoria del databank del giudice, nel quale erano riposti i dati delle ultime indagini su cui stava lavorando il giudice.

Il delitto Lima, gli omicidi politici, tutte le sue straordinarie intuizioni, e un vero e proprio archivio sulla vicenda Gladio. Anche questo era stato consultato da chi si era introdotto nel software. "Le schede sono inserite nell'ambito del programma Perseo. – Hanno spiegato i consulenti informatici. – E non basta conoscere la password per consultarlo, bisogna anche avere una serie di conoscenze approfondite e specifiche sul funzionamento del programma, che è utilizzato solo dalle Procure e da uffici investigativi ad altissimo livello.

I servizi segreti per intenderci".A confermare questa intenzione di Falcone ad indagare su Gladio il giudice Alfredo Morvillo, oggi procuratore aggiunto a Palermo: "Ricordo con precisione che il dottore Falcone parlò delle indagini su Gladio in più di una riunione nell'ufficio del procuratore Giammanco a proposito degli omicidi politici. Ne ho un ricordo preciso perché quell'inchiesta costituì oggetto di discussione: Giovanni Falcone aveva delle idee circa la possibilità di ricominciare tutto daccapo sugli elenchi, in maniera più approfondita, invece il procuratore Giammanco non la pensava allo stesso modo. E assegnò il fascicolo ad un altro magistrato".Che pista stava seguendo Giovanni Falcone? A cosa si riferiva quando, rileggendo la storia dei tanti colleghi e amici che lo avevano preceduto nella sua tragica fine, scrisse "si muore quando si è lasciati soli o quando si entra in un gioco troppo grande? "Cos'è questo gioco grande? e chi sono i giocatori?Aveva fatto in tempo Giovanni Falcone a trasferire quanto di sua conoscenza all'amico fraterno e altrettanto geniale collega Paolo Borsellino? Non lo sappiamo con certezza.

L'unica cosa che è sempre stata chiara ai familiari e ai colleghi di Borsellino è che per seguire l'input lasciatogli con Falcone non avesse abbastanza tempo. Lo sapeva e lo ripeteva continuamente. Affermava anche di essere a conoscenza di informazioni che avrebbe riferito quanto prima all'autorità giudiziaria e lavorava incessantemente giorno e notte per non lasciarsi sfuggire nessuna pista che lo potesse portare a scoprire gli esecutori e i mandanti interni ed esterni dell'assassinio di Giovanni Falcone.

Un'altra strage, se possibile ancora più misteriosa, se possibile ancor più avvolta nei Segreti di Stato. Questa volta sono i collaboratori di giustizia stessi, nonostante le preziosissime rivelazioni, a tracciare una sorta di confine invalicabile oltre il quale non intendono andare costringendo i giudici del cosiddetto "Borsellino ter" ad ammettere nella motivazione della sentenza che "la Corte è pienamente consapevole che la ricostruzione dei fatti che intende offrire è gravemente lacunosa, rimanendo tuttora non identificata una larga parte degli attentatori e dovendosi ancora sciogliere innumerevoli e importanti interrogativi riguardo alle modalità operative seguite dai medesimi". Perché?In realtà la strage di via D'Amelio presenta ben più di un'anomalia rispetto alla "tradizione stragista" di Cosa Nostra. La tempistica prima di tutto, la cosiddetta accelerazione con cui Riina decise di procedere a "fare il fatto di Borsellino" lasciò letteralmente interdetti gli altri membri della Cupola che non fecero mistero delle loro perplessità.

Al compare Raffaele Ganci che per confidenza si permise, in disparte, di avanzare una qualche rimostranza il capo dell'organizzazione rispose con assoluta fermezza che: "La responsabilità era sua". E solo 57 giorni dopo la morte di Falcone assassinarono Borsellino scatenando una reazione senza precedenti sia della pubblica opinione sia da parte dello Stato.

Una scelta strategica del tutto sbagliata, si dirà, ma Salvatore Cancemi, che all'inizio della sua collaborazione non si sognò nemmeno di nominare la strage di via D'Amelio, semplicemente suggerisce: "Riina non era un pazzo, se l'ha fatto è perché aveva avuto qualche garanzia". E con questa frase l'ex membro della Commissione di Cosa Nostra si sbilancia ad indicare i possibili referenti politici con cui Riina e Provenzano, che "sono la stessa cosa", potevano aver preso accordi, ma non a riferire quanto sa sugli esecutori materiali della strage. Si limita infatti a ricostruire il percorso di sorveglianza compiuto da lui stesso, da Raffaele Ganci e dai suoi figli, ma non conosce sugli esecutori materiali.

Ancora più eclatante la posizione di Giovan Battista Ferrante che ha confessato di aver provato il telecomando che ha fatto detonare l'esplosivo, di aver partecipato alla perlustrazione della zona di abitazione del magistrato, ma ha dichiarato di non sapere chi rispose al telefono quando, alle 16.52, chiamò uno dei cellulari del gruppo operativo della strage per dare il via libera. Un numero tra l'altro che aveva composto più volte in quel giorno. "Volevo provare il campo", ha spiegato durante il processo. A fornirgli quel numero, intestato a Cristoforo Cannella, era stato Salvatore Biondino che glielo aveva scritto su un biglietto. I tabulati telefonici però non fanno altro che infittire il mistero.

Ed è proprio seguendo le tracce lasciate dai telefoni che il consulente della Procura Gioacchino Genchi riesce a ricollegare Gaetano Scotto, condannato all'ergastolo per la strage, con il Cerisdi una scuola per manager ospitata al Castello Utveggio che dal Monte Pellegrino sovrasta Palermo e soprattutto offre una visuale eccezionale su via D'Amelio. Erano emerse due telefonate importanti, una cinque mesi prima dell'omicidio Borsellino da Scotto, e un'altra del '91, effettuata da un altro boss di Bagheria, Gaetano Scaduto.

La squadra mobile avvia un'indagine che però si ferma subito tra ostacoli e il trasferimento degli inquirenti. Solo dieci anni dopo in sede dibattimentale Genchi ha potuto spiegare che: "Nella sede del Cerisdi si trovava una postazione di soggetti già appartenenti all'Alto Commissario per la lotta alla mafia e poi forse in forza al Sisde, il servizio segreto civile. Il Sisde, all'epoca, aveva smentito nettamente che quei soggetti fossero appartenenti alla struttura". Poco tempo dopo però sbaraccarono tutto e lasciarono il Castello.

La Procura fece poi esaminare il traffico telefonico del Cerisdi, ma solo quelle in entrata fatte dai cellulari poiché in quegli anni quelle dagli apparecchi fissi non venivano registrate. I magistrati hanno accertato che indubbiamente furono due i gruppi che operarono sul posto: uno composto dai mafiosi di cui si è detto che si occupava della parte preliminare e un altro, su cui vige il più cupo dei silenzi, che ha portato a termine il lavoro. Qualcun altro poi entrò in azione subito dopo la deflagrazione.

Quando l'inferno divampò in via D'Amelio in quello scempio di corpi e lamiere qualcuno si introdusse nell'auto blindata del giudice Borsellino, prese la sua borsa da lavoro la portò lontano, sottrasse la preziosissima agenda rossa in cui il magistrato annotava tutti i suoi appunti di lavoro più riservati e la riportò nella blindata.

Una fotografia e un filmato ritrovati recentemente ritraggono un uomo, l'allora capitano dei carabinieri Giovanni Arcangioli tra carcasse e fuoco con una borsa di cuoio in mano. Interrogato dai pm di Caltanissetta, ha fatto il nome di tre magistrati cui avrebbe consegnato la borsa, ma il suo racconto non trova riscontri e finisce iscritto nel registro degli indagati. Altro mistero. Una ricostruzione ipotetica degli eventi quindi è possibile solo risalendo ai rapporti interni di Cosa Nostra. Salvatore Biondino è l'incaricato di gestire la pianificazione sia della strage di Capaci che in modo particolare quella di via D'Amelio, procura l'esplosivo, tra cui il rarissimo T4 di solito lavorato in ambiente militare, e fornisce il numero a cui far pervenire la comunicazione dell'arrivo del corteo del giudice. E' il braccio consapevole che si muove sul campo assieme agli altri grandi capi mandamento coinvolti in questa strage: Pietro Aglieri, Carlo Greco, i Graviano, tutti ferocissimi stragisti, giovani, condannati all'ergastolo che dopo anni di carcere non hanno mai dato un solo minimo cenno di cedimento. Sono custodi di grandi segreti che non violeranno a nessun costo.

Cosa Nostra dunque acconsente che qualcun altro partecipi alla strage, qualcuno con cui ha un dialogo diretto e riservato, qualcuno come i servizi segreti. Un contributo di notevole spessore, invece, è venuto dalla collaborazione di Antonino Giuffré che ha spiegato agli inquirenti che mentre la strage di Capaci era stata decisa da Riina, quella di via D'Amelio era stata voluta da Provenzano. Questo perché "non si sa bene come" il capo di Cosa Nostra aveva saputo che Borsellino rappresentava un ostacolo sia per le trattative in corso tra pezzi dello Stato e l'organizzazione, alla ricerca di nuovi referenti in quel momento politicamente così difficile per il Paese, in bilico tra la cosiddetta Prima e Seconda Repubblica, sia per le indagini che il magistrato stava svolgendo sull'omicidio di Falcone.

Che Provenzano abbia sempre avuto contatti di primissimo livello con entità esterne all'organizzazione era un po' sulla bocca di tutti in Cosa Nostra. Leoluca Bagarella, suo compaesano, ma anche suo eterno rivale nella successione a Riina, non esita – secondo il pentito Tullio Cannella - a definirlo sbirro e sospetta di un suo intervento nella cattura del potente cognato.

Salvatore Cancemi rivela invece che un giorno, mentre si trovava in tribunale a Palermo, l'avvocato Rosalba di Gregorio (che ha smentito l'accaduto ndr.) lo aveva preso sotto braccio e gli aveva confidato di aver saputo che c'era un grosso corleonese latitante in contatto con i servizi segreti. E il pentito non ha dubbi nell'identificarlo con Provenzano, considerato l'epilogo per Riina, e Bagarella, a suo avviso, non possedeva una pari valenza.

La sua stessa incredibile latitanza record finita solo l'11 aprile scorso dopo 43 anni è indice del grado di coperture di cui ha goduto quest'uomo e non sono riscontrabili solamente nella fitta rete di fiancheggiatori, imprenditori e politicanti che lo hanno aiutato tanto negli affari quanto nelle esigenze primarie.

Più volte Provenzano è riuscito a sfuggire alla cattura quasi certa pianificata con grande scrupolo da ottime squadre di investigatori, come a Mezzojuso nel 1995, quando su indicazione del confidente Luigi Ilardo il corpo diretto dal colonnello Michele Riccio fu fermato sulla soglia della masseria in cui Provenzano stava tenendo una riunione al vertice.

sabato 5 dicembre 2009

Yes we can...surge

Ma in fondo è uomo di pace...cazzo c'ha pure il nobel per quello. Avrà imparato qualche cosa da quell'altro nobel per la pace, Kissinger. Ehhhh, quelli si che erano bei tempi, dove potevi organizzare un bel genocidio, mettiamo quello di Suharto, senza che nessuno venisse a romperti i coglioni, e che numeri poi, che laghi di sangue, che teste mozzate, ottime luci, grandi sceneggiature, interpreti eccezionali.

domenica 29 novembre 2009

Un pò più a destra, un pò più su, un pò più a sinistra...ok, perfetto...mancato alla grande!

Dal sito di 911blogger. Leggetevi il Report completo che domani verrà presentato al Congresso USA.

TORA BORA REVISITED: HOW WE FAILED TO GET BIN LADEN AND WHY IT MATTERS TODAY
Executive Summary

On October 7, 2001, U.S. aircraft began bombing the training
bases and strongholds of Al Qaeda and the ruling Taliban across
Afghanistan. The leaders who sent murderers to attack the World
Trade Center and the Pentagon less than a month earlier and the
rogue government that provided them sanctuary were running for
their lives. President George W. Bush’s expression of America’s desire
to get Osama bin Laden ‘‘dead or alive’’ seemed about to come
true.

Two months later, American civilian and military leaders celebrated
what they viewed as a lasting victory with the selection of
Hamid Karzai as the country’s new hand-picked leader. The war
had been conceived as a swift campaign with a single objective: defeat
the Taliban and destroy Al Qaeda by capturing or killing bin
Laden and other key leaders. A unique combination of airpower,
Central Intelligence Agency and special operations forces teams
and indigenous allies had swept the Taliban from power and ousted
Al Qaeda from its safe haven while keeping American deaths to a
minimum. But even in the initial glow, there were concerns: The
mission had failed to capture or kill bin Laden.

Removing the Al Qaeda leader from the battlefield eight years
ago would not have eliminated the worldwide extremist threat. But
the decisions that opened the door for his escape to Pakistan allowed
bin Laden to emerge as a potent symbolic figure who continues
to attract a steady flow of money and inspire fanatics worldwide.
The failure to finish the job represents a lost opportunity
that forever altered the course of the conflict in Afghanistan and
the future of international terrorism, leaving the American people
more vulnerable to terrorism, laying the foundation for today’s protracted
Afghan insurgency and inflaming the internal strife now
endangering Pakistan. Al Qaeda shifted its locus across the border
into Pakistan, where it has trained extremists linked to numerous
plots, including the July 2005 transit bombings in London and two
recent aborted attacks involving people living in the United States.
The terrorist group’s resurgence in Pakistan has coincided with the
rising violence orchestrated in Afghanistan by the Taliban, whose
leaders also escaped only to re-emerge to direct today’s increasingly
lethal Afghan insurgency.

This failure and its enormous consequences were not inevitable.
By early December 2001, Bin Laden’s world had shrunk to a complex
of caves and tunnels carved into a mountainous section of eastern Afghanistan known as Tora Bora. Cornered in some of the
most forbidding terrain on earth, he and several hundred of his
men, the largest concentration of Al Qaeda fighters of the war, endured
relentless pounding by American aircraft, as many as 100 air
strikes a day. One 15,000-pound bomb, so huge it had to be rolled
out the back of a C-130 cargo plane, shook the mountains for miles.
It seemed only a matter of time before U.S. troops and their Afghan
allies overran the remnants of Al Qaeda hunkered down in
the thin, cold air at 14,000 feet.

Bin Laden expected to die. His last will and testament, written
on December 14, reflected his fatalism. ‘‘Allah commended to us
that when death approaches any of us that we make a bequest to
parents and next of kin and to Muslims as a whole,’’ he wrote, according
to a copy of the will that surfaced later and is regarded as
authentic. ‘‘Allah bears witness that the love of jihad and death in
the cause of Allah has dominated my life and the verses of the
sword permeated every cell in my heart, ‘and fight the pagans all
together as they fight you all together.’ How many times did I
wake up to find myself reciting this holy verse!’’ He instructed his
wives not to remarry and apologized to his children for devoting
himself to jihad.

But the Al Qaeda leader would live to fight another day. Fewer
than 100 American commandos were on the scene with their Afghan
allies and calls for reinforcements to launch an assault were
rejected. Requests were also turned down for U.S. troops to block
the mountain paths leading to sanctuary a few miles away in Pakistan.
The vast array of American military power, from sniper
teams to the most mobile divisions of the Marine Corps and the
Army, was kept on the sidelines. Instead, the U.S. command chose
to rely on airstrikes and untrained Afghan militias to attack bin
Laden and on Pakistan’s loosely organized Frontier Corps to seal
his escape routes. On or around December 16, two days after writing
his will, bin Laden and an entourage of bodyguards walked
unmolested out of Tora Bora and disappeared into Pakistan’s unregulated
tribal area. Most analysts say he is still there today.

The decision not to deploy American forces to go after bin Laden
or block his escape was made by Secretary of Defense Donald
Rumsfeld and his top commander, Gen. Tommy Franks, the architects
of the unconventional Afghan battle plan known as Operation
Enduring Freedom. Rumsfeld said at the time that he was concerned
that too many U.S. troops in Afghanistan would create an
anti-American backlash and fuel a widespread insurgency. Reversing
the recent American military orthodoxy known as the Powell
doctrine, the Afghan model emphasized minimizing the U.S. presence
by relying on small, highly mobile teams of special operations
troops and CIA paramilitary operatives working with the Afghan
opposition. Even when his own commanders and senior intelligence
officials in Afghanistan and Washington argued for dispatching
more U.S. troops, Franks refused to deviate from the plan.
There were enough U.S. troops in or near Afghanistan to execute
the classic sweep-and-block maneuver required to attack bin Laden
and try to prevent his escape. It would have been a dangerous fight
across treacherous terrain, and the injection of more U.S. troops
and the resulting casualties would have contradicted the risk-averse, ‘‘light footprint’’ model formulated by Rumsfeld and Franks.
But commanders on the scene and elsewhere in Afghanistan argued
that the risks were worth the reward.

After bin Laden’s escape, some military and intelligence analysts
and the press criticized the Pentagon’s failure to mount a full-scale
attack despite the tough rhetoric by President Bush. Franks, Vice
President Dick Cheney and others defended the decision, arguing
that the intelligence was inconclusive about the Al Qaeda leader’s
location. But the review of existing literature, unclassified government
records and interviews with central participants underlying
this report removes any lingering doubts and makes it clear that
Osama bin Laden was within our grasp at Tora Bora.
For example, the CIA and Delta Force commanders who spent
three weeks at Tora Bora as well as other intelligence and military
sources are certain he was there. Franks’ second-in-command during
the war, retired Lt. Gen. Michael DeLong, wrote in his autobiography
that bin Laden was ‘‘definitely there when we hit the
caves’’—a statement he retracted when the failure became a political
issue. Most authoritatively, the official history of the U.S. Special
Operations Command determined that bin Laden was at Tora
Bora. ‘‘All source reporting corroborated his presence on several
days from 9-14 December,’’ said a declassified version of the history,
which was based on accounts of commanders and intelligence
officials and published without fanfare two years ago.

The reasons behind the failure to capture or kill Osama bin
Laden and its lasting consequences are examined over three sections
in this report. The first section traces bin Laden’s path from
southern Afghanistan to the mountains of Tora Bora and lays out
new and previous evidence that he was there. The second explores
new information behind the decision not to launch an assault. The
final section examines the military options that might have led to
his capture or death at Tora Bora and the ongoing impact of the
failure to bring him back ‘‘dead or alive.’’

Quoque tu

Zoro rules!

giovedì 26 novembre 2009

Bues de Bolivia

AS:Testo del pezzo sopra

L'altra sera mi son visto "Che - Guerriglia" di Soderbergh, che devo ammettere è un film molto ben fatto dal punto di vista di quello che vuole raccontare, e cioè di come fu la fase di guerriglia rivoluzionaria tentata dal Che in Bolivia nel 1966-1967, di come fu a livello pratico, di come ci si doveva muovere nella giungla; insomma belle immagini, bella luce, grande Benicio del Toro.
Quello che esce dal film a livello documentaristico non è però completo, ma in fondo non era questo il fine del regista stesso, non si vuole farne un ennesimo documentario su fatti di Bolivia.
Poi c'è il documentario di Erik Gandini (quello di Videocracy per chi non lo conoscesse da prima), "Sacrificio - Chi ha tradito Che Guevara?" del 2001, che è eccezionale come documentario, perchè viaggia, intervista, raccoglie documenti, ritorna, domanda, ci pensa, ridomanda, insomma tutti i requisiti essenziali perchè un documentario serva a qualcosa; ma è anche bello come un film bello, ben fatto, ben montato, ottimo dinamismo, immagini mai noiose.



Questa è la parte 6 del documentario, che manca nel video sopra.

venerdì 20 novembre 2009

We are the fucking best politicians in the world, so gimme my chair and fuck you, muthafucka!

AS: Si, è Vinnie Jones, quel Vinnie Jones.

La notizia del giorno potrebbe essere la morte della nostra eroina Brendona, che stanotte è stata ridotta a churrasco da qualcuno che evidentemente ci tiene alla verità (scuola Pazienza direi).
Oppure potrebbe essere la bocciatura di D'Alema in Europa, fregato da Brown, Zapatero, dai paesi europei dell'Est, e dal PSE guidato da quel kapò di Schulz ; in pratica nun se l'è inculato nessuno, considerato che pure il Partito Socialista Europeo l'ha bidonato (ad essere nominato Mr.PESC è stata l'inglese Catherine Ashton , che dovrà comunque essere votata dal Parlamento europeo); quindi niente erasmus per D'Alema, per la gioia di tutti i piddini che si ritroveranno er Massimissimo e le sue costosissime scarpe-con-la-puzza-sotto-il-naso in casa. Quindi er mejo presidente der consijo da' 'a storia d'Itaja (secondo le parole disinteressate di un Berlusconi qualsiasi) , ed il più intelligente ed acuto politico italiano (secondo le parole altrettanto disinteressate di un tal D'Alema), non sono bastati.

E poi c'è una notiziola niente male, delicata come solo come Vinnie Jones sa essere, e che riguarda Mario Placanica, il tristemente noto carabiniere del G8 2001; la notizia fa pensare soprattutto considerato che nemmeno 9 giorni fa a Placanica alcuni consiglieri comunicali di Borghetto Santo Spirito (Savona) avevano consegnato un riconoscimento per il lavoro svolto.
Prima lo volevano candidare, cosa che poi avvenne nel 2006 con Abramo in Calabria (prima con AN, poi con una lista civica per Abramo). Poi, appena constato che il ragazzo stava uscendo di capoccia (col rischio di dire come erano andate veramente le cose nel 2001), lo hanno rimesso nel dimenticatoio.

da Wikipedia, precisazioni che mancano negli articoli seguenti:
http://it.wikipedia.org/wiki/Mario_Placanica
Le presunte violenze sessuali contro minore e maltrattamenti

Il 19 novembre 2009 è stata diffusa la notizia che Mario Placanica è indagato dalla Procura della Repubblica di Catanzaro con l'accusa di violenza sessuale su minore e maltrattamenti nei confronti di una ragazzina che all'epoca dei fatti, avvenuti dall'agosto 2006 all'agosto 2007, aveva 11 anni. La madre della ragazzina ha sporto denuncia nel maggio 2008, mentre l'incidente probatorio si è svolto il 18 novembre 2009. Placanica è difeso dall'avvocato Salvatore Sacco Saragò del Foro di Catanzaro.


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Violenza su minore, indagato Placanica
Sotto inchiesta a Catanzaro l'ex carabiniere prosciolto
per la morte di Carlo Giuliani durante il G8 del 2001


MILANO - Mario Placanica, l'ex carabiniere accusato e poi prosciolto per la morte di Carlo Giuliani durante il G8 di Genova, è indagato dalla procura di Catanzaro per violenza sessuale su minore e maltrattamenti. Ieri, si è appreso, la minorenne, che all'epoca dei fatti aveva 11 anni, è stata ascoltata dal gip della città calabrese Gabriella Reillo in sede di incidente probatorio, su richiesta del pubblico ministero. L'ascolto della ragazzina, avvenuto in una struttura protetta, si è reso necessario, si legge nell'ordinanza ammissiva di incidente probatorio depositata il 26 ottobre 2009, «per garantire il miglior ricordo dei fatti, verificatisi circa due anni fa, e verso i quali la stessa ha manifestato un atteggiamento di rifiuto e di tendenza alla rimozione, come desumibile dall'atteggiamento di non collaborazione» rilevato da una psicologa, e in generale «dal sentimento di vergogna, con conseguente reticenza».

http://www.corriere.it/cronache/09_novembre_19/placanica-violenza-minore_4fc4af36-d541-11de-a0b4-00144f02aabc.shtml
19 novembre 2009


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«Cancellare strade e piazze dedicate a Giuliani»
di Redazione
10 novembre 2009
http://www.ilgiornale.it/genova/cancellare_strade_e_piazze_dedicate_giuliani/11-11-2009/articolo-id=398239-page=0-comments=1

È doveroso cancellare al più presto tutte le intitolazioni di strade, piazze e sedi pubbliche dedicate a suo tempo in Italia a Carlo Giuliani, il no global morto, colpito da una pallottola sparata dalla pistola del carabiniere Mario Placanica, in piazza Alimonda, nel corso dei violenti scontri del G8 di Genova del luglio 2001, mentre tentava di lanciare un estintore all’interno della jeep Defender dell’Arma: l’istanza viene dal consiglio comunale di Borghetto Santo Spirito che ha approvato una delibera con cui si chiede un provvedimento in tal senso al governo e al parlamento.
Al tempo stesso, i consiglieri comunali hanno deciso di inviare all’Arma dei Carabinieri e all’ex carabiniere Mario Placanica la delibera «quale riconoscimento del comportamento in adempimento del proprio dovere istituzionale a tutela dei diritti democratici» che Placanica all’epoca dei fatti garantiva e l’Arma in generale garantisce da sempre e quotidianamente.
La decisione dell’assemblea del Comune di Borghetto Santo Spirito verrà inviata nei prossimi giorni al consiglio dei ministri, alle Camere, alla stessa Arma dei Carabinieri, oltre che alla Regione Liguria e alla Provincia di Savona.

«In questi anni - si legge nel documento approvato dal consiglio comunale del Comune del ponente ligure - sono state adottate diverse iniziative per ricordare Carlo Giuliani, mentre nulla è stato fatto per Placanica. Le forze dell’ordine sono state considerate colpevoli per quanto avvenuto a Genova a prescindere dall’effettiva responsabilità rilevata. Nel frattempo Placanica è stato riformato. Visto che frettolosamente sono state prese iniziative a favore di Giuliani e sono stati colpevolizzati sia l’Arma sia Placanica - sottolinea ancora la delibera del consiglio comunale di Borghetto Santo Spirito -, chiediamo al governo e ai parlamentari di emanare circolari e regolamenti, anche retroattivi, per stabilire le modalità di intitolazione di uffici e sedi pubbliche».
La ragione è chiara, a giudizio dei consiglieri comunali: le intitolazioni, d’ora in avanti, andrebbero avanzate e approvate «solo a conclusione dell’iter per la determinazione dei fatti». Per tutto questo, dunque, il Comune di Borghetto Santo Spirito chiede «di annullare le intitolazioni istituzionali a nome di Carlo Giuliani».

mercoledì 18 novembre 2009

Don't tell the leghìst how much is fascio the Borghezio with the pears

Prendersi gioco di Borghezio è fin troppo facile, e nemmeno giusto direi; perchè in fondo che fosse un'anima pia e buona come lo era il cane scabbioso di Pacciani lo sappiamo tutti.
L'interessante qui è quello che dice il Mario nostro ai militanti francesi, rivelando un pò quello che avevamo capito più o meno tutti.
Tiratori di sassi, nasconditori di mani.
PS: Stupendo il meneghino che all'occorrenza può diventare francese.

lunedì 16 novembre 2009

Les spallons de Belleville


Bellina la puntata di ieri di Report, per carità niente di nuovo dal fronte, ma tutto sommato vale la pena perchè ci ricorda le nostre rooooots, bloody rooooots...
Pecchè tenimme o cuore italiane!

PS:La puntata, nel caso venga rimossa da Tuttubbo per colpa di quella robbetta sciatta chiamata diritti d'autore, è rimediabile sul sito Rai (ma è probabile che dobbiate installare microsoft silverlight, che sta a flashplayer come 'a carbonella all'energia atomica).


LA BANCA DEI NUMERI UNO
di Paolo Mondani
Domenica 15 novembre alle 21.30

Con lo scudo fiscale del 2001, poi prolungato fino al 2003, sono stati messi in regola circa 78 miliardi di euro. A fronte di questa enorme massa di denaro sono state inviate circa 90 segnalazioni di operazioni sospette, di cui nessuna che riguardava la Sicilia. Le banche hanno evidenziato poco o nulla proprio grazie alle garanzie di anonimato accordate da quella legge. E quindi non e’ stato possibile intercettare il denaro sporco frutto di reati di natura fiscale per i quali era stata accordata la non punibilità. È stato solo per una fortuita coincidenza investigativa che la Procura di Palermo ha individuato e sequestrato alcuni milioni di euro che uno dei riciclatori più importanti di Cosa Nostra, già condannato per mafia, stava tentando di fare rientrare in Italia. È proprio in quegli anni che all’improvviso sul palcoscenico della finanza sono apparsi una miriade di nuovi ricchi che hanno acquistato a tutto spiano pacchetti azionari, immobili, attività imprenditoriali e commerciali offrendo denaro contante fresco e abbondante, soprattutto per quello che erano gli ordinari standard di mercato. Quel massiccio e improvviso rientro di denaro in contante gonfiò a dismisura la bolla speculativa sugli immobili con la quale, in parte, ancora stiamo facendo i conti. Con il terzo scudo – che pure ha alle spalle la nuova legge antiriciclaggio (la 231 del 2007) – di fatto sono state rimosse le segnalazioni di operazioni sospette che i vari operatori, commercialisti, avvocati d'affari, fiduciarie, banche, sono obbligati a inviare alla UIF, l’Unita’ di Informazione Finanziaria, della Banca d'Italia nel caso le caratteristiche del soggetto, la natura dell'operazione, la sua provenienza, l'ammontare dell'importo destino sospetto di un tentativo di riciclaggio. Peraltro, i reati che il nuovo scudo fiscale coprirebbe sarebbero ben più gravi della semplice evasione. Cosa si nasconde dietro il mondo delle fiduciarie e delle banche svizzere? Come spariscono i soldi oltrefrontiera, come lavorano gli spalloni di nuova generazione, quali sono i metodi di esportazione sicura dei capitali all'estero, come alcune banche muovono questo meccanismo.

giovedì 12 novembre 2009

Friends will be friends...

Lo Massimissimo in questi giorni viene sponsorizzato da più parti come candidato a Ministro degli Esteri della UE, the famous Mr.PESC (sostanzialmente futura "voce unica" istituzionale della UE in politica estera che, come recita il Trattato di Lisbona, «Presiede il Consiglio "Affari esteri", contribuisce con proposte all`elaborazione della politica estera e di sicurezza comune», «rappresenta l`Unione» in questi settori, «conduce il dialogo politico con i terzi ed esprime la posizione dell`Unione nelle organizzazioni internazionali e in seno alle conferenze», oltre ad avere a disposizione una propria delegazione diplomatica e circa 400 milioni di euro da spendere in alcolici e lupini). Visto che sono i governi degli Stati ad eleggerlo (per la prima volta nella storia UE), allora anche Silvio dovrà fare la sua parte; la partita è ancora in corso, ma se tutto va bene (cioè se tutto va male) Berlusconi darà il suo appoggio determinante (che ci crediate o no) al nonplusultraMassimissimo.
E vissero felici e contenti?
Si, e lo si vedrà quando dal sito del politico più intelligente del mondo (sempre dalle parole di un disinteressatissimo D'Alema) cambieranno alcune cose, a partire da quell'articolo in bella vista.

lunedì 9 novembre 2009

Der majale nun se butta niente...

Tratto dal sito di Gennaro Carotenuto
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Tra psicosi e superficialità, che fare?

In medio stat virtus: per affrontare razionalmente i problemi bisognerebbe essere capaci di mantenere sempre un atteggiamento il più possibile riflessivo ed equilibrato. Nei confronti dell’influenza A, come scrive Umberto Veronesi, esiste una via di mezzo tra la psicosi e la superficialità.

1. Come l’insicurezza e l’ignoranza rendono psicotici, e qualcuno ci marcia

Una società che si fa facilmente preda delle paure è agevole da orientare per un governo capace, coadiuvato peraltro da un sistema di mass media che gestisce le notizie con superficialità o seguendo la logica del ‘business is business’.
L’influenza A è raramente letale sulla base dei dati analizzati a livello mondiale, e U. Veronesi (solo per citare una voce autorevole) ci spiega anche che le peculiarità di quest’influenza sono piuttosto l’elevata contagiosità, con un’incidenza di circa 3,5 volte quella delle normali influenze di stagione, e il fatto che colpisca in particolare la fascia d’età 5-14 anni – anche in forma grave. La vaccinazione sembra peraltro funzionare, dove sperimentata. Il rischio principale di questo virus è una sua eventuale rapida mutazione (come accadde con la Spagnola nel ‘900) rispetto alla quale servono, come scrive Veronesi, “flessibilità e prontezza di reazione”.

I mass media hanno vita facile nel disinformare una società che ama farsi distrarre: sappiamo già che in Italia saranno di più i morti per lavoro e, guardando al resto del mondo, solo per fare due esempi, i morti per tubercolosi sono stati 1.600.000 nel 2004 e quelli per malaria sono stimati in 1 milione di morti all’anno. Ricordo peraltro che tra gli Obiettivi di Sviluppo del Milllennio – che stiamo fallendo -, il sesto obiettivo è proprio Combattere l’HIV/AIDS, la malaria ed altre malattie.

Il video inserito, trovato sul sito web Gapminder, ci aiuta a demolire questo mito mediatico e può forse contribuire a tenere aperta la nostra mente.

Il video è disponibile anche su Youtube, ma preferisco riportare il link alla pagina originaria di Gapminder perchè il sito è interessantissimo e vale la pena di esplorarlo.

2. Criticare non è fare demagogia, altrimenti si torna al punto 1.

E’ notizia più o meno nota che a capo di Gilead Sciences, la società statunitense che brevettò il Tamiflu prima di cederlo alla Roche, ci fosse l’ex segretario alla Difesa Donald Rumsfeld, abilissimo manipolatore mediatico e tra gli artefici del diritto d’emergenza negli Stati Uniti dell’era neocon. Pare che già nel 1976, durante la presidenza Ford, avesse innescato un simile caso di influenza suina con vaccinazione di massa.
I conflitti di interessi non si limitano agli Stati Uniti, se si considera che la moglie del Ministro del Lavoro, della Salute e delle Politiche Sociali Maurizio Sacconi, Enrica Giorgetti, è direttore generale di Farmindustria dal 2005. Per questo motivo la nomina di Sacconi era stata a suo tempo criticata persino dalla rivista Nature: nel business del farmaco tutto il mondo è paese.
Consapevoli di tutto questo, non occorre tuttavia abbandonarsi alla demagogia o vedere complotti dappertutto: il rischio dell’influenza è reale, come pure l’efficacia del vaccino e, con le parole di U. Veronesi: “E’ inevitabile che ci siano interessi economici in gioco, ma la questione centrale che fa decidere la sanità mondiale per il vaccino è la salute della gente e pensare ad una macchinazione finanziaria di dimensioni planetarie è sbagliato”.

Però: che fare?

E’ dunque una scelta di prudente buon senso adottare le giuste cautele e aderire alla campagna di vaccinazione, nella speranza di non assistere ad evoluzioni inaspettate del contagio? U.Veronesi è convinto di sì; altre voci ci mettono in allerta sulle controindicazioni del vaccino. Un dettagliatissimo articolo dal titolo Vaccini: perchè sono un pericolo, trovato su Agoravox e riportante opinioni di ricercatori americani, ci mette seriamente in allarme:

“(…) Una nuova caratteristica dei due vaccini H1N1 che la Novartis e la GlaxoSmithKline stanno sviluppando, è l’aggiunta di squalene, un coadiuvante per attivare immunogenicità e ridurre drasticamente la quantità di antigeni virali necessari. Lo scopo di un immuno-coadiuvante, aggiunto al vaccino, è quello di aumentare la risposta immunitaria alla vaccinazione. I coadiuvanti fanno si che il sistema immunitario iperreagisca all’introduzione dell’organismo contro il quale si è stati vaccinati. Questi coadiuvanti si suppone che facciano il lavoro più velocemente (ma certamente non in modo più innocuo), cosa che riduce la quantità per dose di vaccino, ma anche il numero di dosi somministrate ad ogni individuo. Tanto minore sarà il vaccino richiesto per ogni individuo tanto più dosi individuali saranno disponibili per le campagne di vaccinazione di massa.
Il coadiuvante squalene di proprietà della Novartis per il loro vaccino H1N1 è l’MF59. Quello della Glaxo’s è l’ASO3. L’MF59 deve ancora essere approvato dalla FDA (Food and Drug Administration) perchè possa essere usato in vaccini usati in USA, nonostante ci sia una sua storia di uso in altri paesi. L’MF59 (il coadiuvante allo squalene della Novartis) fu un ingrediente NON approvato nei vaccini sperimentali all’antrace (experimental anthrax vaccines) e da allora è stato collegato alle malattie devastanti e autoimmuni di cui soffrono moltissimi veterani del Golfo. (…)”

L’articolo merita di essere letto integralmente, anche se nell’articolo stesso si segnala che le evidenze scientifiche descritte non sono ancora conclusive. Notizie ancora più recenti riportano che lo squalene non verrà usato nel vaccino USA, ma in Europa pare di sì. Lo squalene non è peraltro l’unico ingrediente a rischio. Cosa pensare di tutto questo? Questi allarmi sono attendibili? E cosa si potrà decidere nei confronti del vaccino, quando ci verrà eventualmente proposto?

http://coordinategalattiche.splinder.com/

giovedì 5 novembre 2009

"Berlusconi cade a marzo": Scanzi intervista Luttazzi


Da uno dei due blog di Andrea Scanzi (l'altro è quella perla de Il Criminoso), un'intervista a Luttazzi.
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Il satirico più amato e odiato d’Italia non si ferma. Nuova stagione teatrale (Va’ dove ti porta il clito), tournèe musicale per i club, palestra comica nel suo blog, blitz a RaiNews (“la giornalista è una mia amica”) e un libro per Feltrinelli (La guerra civile fredda). Daniele Luttazzi è ovunque, tranne che in tivù. E ha una certezza: “Silvio Berlusconi è finito, a marzo cade”. Ecco un’intervista senza rete, in esclusiva per questo blog.
Perché riprendere la parodia di Susanna Tamaro?
“In origine era uno spettacolo del ’96, l’autrice mi fece causa e la perse. La prima di una lunga serie. L’ho riscritto per più di metà, il tono è satirico-surreale. Il libro della Tamaro esprimeva tutti quei valori, per me decrepiti, che ne spiegavano il successo. Valori da spazzare via con la satira: si percepiva che portavano con sé qualcosa di fascistoide. Ora quei valori sono diventati un programma di governo. Un incubo esistenziale per molti. Non a caso adesso l’autrice scrive per Famiglia Cristiana”.
Lo spettacolo comincia con un’affermazione impegnativa: “Questo monologo celebra la fine del regno birbonico”.
“Con la bocciatura del Lodo Alfano, Berlusconi giustamente dovrà andare a processo. Tutto un sistema di potere che convergeva sulla sua figura si dissolverà come neve al sole. Credo verso marzo. Andremo a elezioni anticipate, governo tecnico, eccetera. Berlusconi è finito: do questa bella notizia ai lettori. Ora bisogna occuparsi di chi Berlusconi ce l’ha messo. Ovvero gli italiani. Berlusconi è l’ennesima espressione dell’eterno fascismo italico, che come un fiume carsico viene ciclicamente in superficie e provoca danni. Come diceva Petrolini quando qualcuno dal loggione lo importunava: “Io non ce l’ho con te, ce l’ho con quello accanto a te che non te butta de sotto”. Ecco: gli italiani sono quelli accanto a lui. Berlusconi è finito, il berlusconismo no”.
Se gli italiani restano malati di fascismo congenito, perché Berlusconi cadrà a marzo?
“Alcuni indicatori - settori della finanza, economia, politica, industria, Vaticano, USA- segnalano, come un aumento di radon dal sottosuolo, che Berlusconi anche per loro è superato. Da adesso fino a marzo sarà solo un problema di tempi tecnici. Berlusconi andrà a processo, verrà condannato e materialmente salterà. E’ stato già mollato. Servono altri personaggi, dicono Fini. Lo Stato, a quel livello cui noi non abbiamo accesso, non può permettere che uno come Berlusconi demolisca i fondamenti della Costituzione”.
C’entra anche l’immagine dell’Italia all’estero?
“Un po’ sì. Non è possibile che gli italiani siano diventati lo zimbello d’Europa per colpa di una persona malata, che ha problemi con le donne e con l’universo mondo. Questo però, attenzione, è solo l’epifenomeno. E’ molto più grave che Tremonti e Berlusconi, da un punto di vista economico, non abbiano fatto nulla per uscire dalla crisi economica. Assolutamente nulla, anche se il Tg1 di Minzolini non lo dice”.
Anche il Vaticano ha scaricato Berlusconi?
“Sì. La Chiesa è così: finché Berlusconi ha uno stalliere mafioso in casa, va bene. Falso in bilancio, corruzione, leggi ad personam: okay. Se però Berlusconi va a letto con una puttana, allora no, questo non si può fare. Spero che abbiano capito che non esiste una persona più profondamente anticattolica di Berlusconi. I suoi riferimenti sono altri, il suo stesso mausoleo non brilla certo per simbolismi cristiani”.
Lei non è mai stato tenero con il Pd. E’ diventato più indulgente dopo le primarie?
“No. Lo dicevo anche due anni fa, in due interviste a Repubblica e Unità. Stavano tirando la volata a Veltroni e mi chiesero cosa pensassi del Pd. Io risposi che il Pd era un’inevitabile stronzata. Tagliarono domanda e risposta. Il Pd è un progetto inconsistente e sbagliato. Anche la narrazione del Pd è inadeguata. Il Pd non sa chi rappresenta: a chi parla? Cosa dice? Non lo sa. Va sempre in televisione, ma parla a vanvera. Non ha alcuna efficacia. Sentire D’Alema che parla di “amalgama non riuscito” e vederli ancora impegnati nelle baruffe chiozzotte, non stupisce. Però, anche qua: perché un satirico due anni fa c’era arrivato e gli Scalfari no? Stanno ancora lì a fare propaganda”.
Chiederlo a lei fa un po’ ridere, ma esiste un problema di libertà d’informazione?
“Certo. All’origine di tutto c’è il conflitto di interessi berlusconiano. Inoltre, in Italia, la voce libera da appartenenze non ha accesso. Esistono clan di sinistra, clan di destra, chiesa, massonerie. Ciascuno difende interessi particolari. Io aspetto ancora che Repubblica faccia una seria inchiesta sulla Sorgenia di De Benedetti, sui progetti Sorgenia di produrre energia bruciando paglia o metano ad Aprilia e in Val D’Orcia. Oltretutto il progetto Aprilia fu autorizzato da Pierluigi Bersani, quando era ministro. E aspetto ancora che qualcuno chieda conto ai maggiori propagandisti italiani della guerra in Iraq, Giuliano Ferrara e Carlo Rossella, delle centinaia di migliaia di morti innocenti. L’ottava puntata di Decameron parlava di questo, ma mi hanno sospeso alla quinta”.
Internet è più libero?
“Su Internet ho enormi riserve. Innanzitutto è un Panopticon micidiale: i carcerati sono anche i carcerieri. Chi interviene in un blog, è osservatore e osservato. I suoi gusti sono monitorati sempre. La tua personalità viene trasferita interamente in Rete, fino al caso micidiale di Facebook. A quel punto non avrai più difese: c’è un’aria del pudore che Internet violenta costantemente. Baudelaire diceva che l’artista è sempre quello che mantiene viva la sua vulnerabilità, la sua sensibilità. Quello che non viene ottuso dall’alienazione. Se non ti proteggi, ti offri alla violenza. Il web diventa uno spazio molto impudico. Inoltre il web favorisce il populismo, come dimostra il caso Grillo. Fra l’altro, la sua “democrazia dal basso” non è che marketing partitico in cui sono esperti quelli della Casaleggio Associati, la società che ne segue le mosse. Il modello è la guerrilla advertising del Bivings Group”.
Però almeno Grillo ha sciolto l’ambiguità: non più satirico, ma politico. Quello che lei gli aveva chiesto dopo il primo V Day.
“Sì e no. L’ambiguità non è stata risolta completamente. Grillo ha creato un partito. Da quel momento, ogni suo punto di vista è pregiudiziale. Fine della satira. Adesso i suoi sono comizi. A pagamento. La satira è politica, ma l’attività partitica è un’altra cosa. Al Franken, grande satirico, si è candidato coi democratici, ora è senatore, e ha subito smesso di fare spettacoli satirici. Grillo no”.
Il satirico, in tutto questo, che ruolo ha?
“Far ridere commentando i fatti. Quando funziona, i bersagli non ridono. Il satririco inquadra il problema e lo mette in prospettiva. Non dà indicazioni su come comportarsi o dire per chi votare, ma fa sì che ognuno si interroghi e cominci un percorso personale di approfondimento. L’arte fa questo: ha tempi più lunghi della politica, ma è inesorabile. Rimane. La satira ha il ruolo della poesia: apparentemente nullo. Ma bisogna credere in ciò che si fa. Poi, una volta scoperte certe cose, il pubblico potrà anche rimpiangere il Matrix di prima, perché magari aveva un buon sapore. Ma il compito del satirico resta quello: provare a svelare il Matrix”.
Molti satirici si sono avvicinati a Di Pietro. Lo stesso Travaglio, da lei “lanciato” in tivù, non lo nasconde. Luttazzi no. Perché?
“Sarebbe un atteggiamento di parte. La satira non è propaganda per questo o quel partito. Con la sua arte, il satirico ricrea un’agorà in cui suggerisce dubbi e lascia liberi di decidere. L’arte ha tempi più lunghi della politica, ma è inesorabile. La satira ha una sua nobiltà, di tipo artistico, molto più potente della semplice denuncia partitica. L’artista è il primo che deve mettersi in discussione, non deve credere di avere sempre ragione. Si tratta di rispettare il pubblico, non di plagiarlo. Io ho ricevuto una solida educazione cattolica. Agli inizi mi capitava di dire battute sulla religione che mi facevano molto ridere, anche se non le condividevo ideologicamente. Dopo vent’anni, ho scoperto che quelle mie battute avevano ragione. Devi fidarti della piccola verità che c’è in una risata. La satira ti rende terzo a te stesso”.
Tutte queste cose, lei potrebbe dirle da Santoro, ma non ci va. Non potrebbe sfruttare lo spazio come Sabina Guzzanti?
“E’ una buona obiezione, ma io conosco il potere del contesto. Ho rifiutato anche Celentano e la conduzione di Sanremo: certi contesti sono più forti di te. Basta leggere McLuhan. Se vai a Sanremo, sei Sanremo. Non sei tu”.
Michele Santoro non è Sanremo. C’è Vauro, c’è Travaglio.
“Vero, ma anche lì c’è un contesto. Santoro è in onda per ordine di un giudice. La dirigenza Rai ha detto esplicitamente che, se potesse, lo farebbe subito fuori. Io non vado in un posto che è una riserva e un altro deve garantire per me. La satira è libera. Quando accetti anche solo un controllo minimo, hai accettato un limite alle tue opinioni. La satira non può avere limiti, a parte quelli di legge”.
Tutto bello, ma così lei si preclude una fetta smisurata di pubblico.
“Non faccio satira “per andare in tv”. Ci vado se posso fare satira. La satira è come un’arte marziale. Quando porti il colpo, la forza che ci metti è l’ultimo dei problemi. Posso colpirti con molta più efficacia col minimo di potenza, se so il fatto mio. Infatti io non colpisco mai a vuoto. A differenza del Pd”.


http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplrubriche/giornalisti/hrubrica.asp?ID_blog=241

"Iraq. La situazione in Iraq sta migliorando. Prima era il caos, adesso è l'anarchia." Daniele Luttazzi

Al fine del famoso "editto bulgaro" contro Biagi, Luttazzi e Santoro, nessuno fa mai caso al fatto che oggi di quei tre nomi nessuno si ricorda che c'era Luttazzi, dimenticando di fatto che fu lui a farla veramente tosta, quando intervistò uno sconosciuto Travaglio che aveva appena tirato fuori un piacevolissimo pamphlet di poesie su Silvio ("L'odore dei soldi").





Questa la puntata di quel gran programma che fu Satyricon andata in onda la settimana seguente.


Come è andata a finire?...

venerdì 30 ottobre 2009

Smandrappando la chitara

Ognuno a modo suo.






PS: E poi una cosa a parte, ma comunque una chicca: Jimi e Jimmo insieme.

Circolareee, nun c'è niente da vedè, circolareee...

Il ministero dell'ambiente dice che il relitto presente non è quello della Cunsky ma di una vecchia nave affondata quasi novant'anni prima, non ci sono barili a rischio, che non ci sono radiazioni (almeno fino a 300m di profondità e per 7km di raggio); anche se poi l'impressione, almeno a sentire il procuratore nazionale antimafia Grasso, è che non ci si riesca a fidare di nessuno.
Intanto un buon documentario realizzato da Current.

lunedì 26 ottobre 2009

Tenghe 'o cuore italiane...

Prima l'articolo dell'Espresso, e poi un pezzo di Fabio Piselli, il perito militare che ha contribuito alle indagini sull'affondamento del Moby Prince del 1991 (140 morti).

da http://it.wikipedia.org/wiki/Moby_Prince
Il 16 novembre 2007 un consulente in materia di intercettazioni telefoniche ed ambientali, Fabio Piselli,[2] (ex Parà della "Folgore") di origine livornese mentre stava privatamente indagando sulla morte di un suo cugino impiegato alla Defense Intelligence Agency presso l'ambasciata americana di Roma, ha raccolto delle notizie utili anche per la tragedia del Moby Prince per questo dopo aver incontrato l'avvocato Carlo Palermo per organizzare l'ascolto di un potenziale testimone, è stato aggredito da quattro persone incappucciate che dopo averlo stordito lo hanno successivamente chiuso in macchina alla quale hanno appiccato il fuoco; per fortuna l'uomo è riuscito ad uscire in tempo dall'auto. Fabio Piselli era già stato precedentemente interrogato dalla Procura di Livorno come persona a conoscenza di fatti riguardanti il Moby Prince con particolare interesse verso il monitoraggio elettronico della rada di Livorno avvenuto la sera della tragedia. Inoltre ha partecipato ai soccorsi sin dai primi momenti della tragedia fino al riconoscimento dei resti delle vittime morte a bordo del traghetto. La Procura di Livorno ha aperto un fascicolo per tentato omicidio in danno di Fabio Piselli ad opera di ignoti, la sua auto è stata sottoposta alle indagini scientifiche da parte dei Carabinieri del RIS.

Il relitto del Moby Prince, completamente arso ma ancora galleggiante, è rimasto per anni sotto sequestro nel porto di Livorno. Dissequestrato, sarebbe stato avviato allo smantellamento in un porto della Tunisia, dove sarebbe però affondato nel 1999. Si parla al condizionale perché, a tal proposito, c'è stata una dichiarazione di Roberto Saviano, durante la trasmissione Che tempo che fa, circa il reale destino di quel che restava del Moby Prince. Saviano, infatti, ha affermato che il relitto è stato smaltito dai clan camorristici del Casertano: sarebbe stato dapprima ridotto in pezzi, portato via con una carovana di autotreni e sotterrato in un'improvvisata discarica a cielo aperto nelle campagne di Castelvolturno.

Alle vittime della tragedia del Moby Prince il Comune di Livorno ha voluto intitolare una piazza cittadina; rimane famoso anche lo striscione dei tifosi del Livorno, esposto durante una partita tenutasi allo stadio Armando Picchi: Moby Prince, 140 vittime, nessun colpevole.



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FONTI LA FONTE DELLA ’NDRANGHETA - NUOVE RIVELAZIONI DEL PENTITO: POLITICI E 007 DIETRO LE NAVI DEI VELENI – 30 MERCANTILI NEI MARI ITALIANI E “DISCARICHE” IN SOMALIA – DE MITA SMENTISCE IL COINVOLGIMENTO – SOLDI IN SVIZZERA IN AUTO DIPLOMATICHE DEL SISMI…

Riccardo Bocca per "L'Espresso"
http://espresso.repubblica.it/dettaglio/complotto-sotto-il-mare/2109748//0

L'ex boss della 'ndrangheta Francesco Fonti è soddisfatto e amareggiato allo stesso tempo. «Per anni nessuno ha voluto ascoltare quello che dicevo ai magistrati. Ho sempre ammesso di essermi occupato dell'affondamento di navi cariche di rifiuti tossici e radioattivi.

Ho indicato dove cercare: al largo di Cetraro, nel punto in cui il 12 settembre la Regione Calabria e la Procura di Paola hanno trovato a 480 metri di profondità un mercantile con bidoni nella stiva. Eppure, anche oggi che tutti mi riconoscono attendibile, devo affrontare una situazione assurda: vivo nascosto, senza protezione, con il pericolo che mi cerchino sia la cosca a cui appartenevo, sia i pezzi di Stato che usavano me e altri 'ndranghetisti come manovalanza».

L'altra sera, aggiunge Fonti, «mi ha telefonato Vincenzo Macrì, il consigliere della Direzione nazionale antimafia. Ha detto: "Speriamo che ora non ci ammazzino tutti...". Ecco di cosa stiamo parlando. Di vicende che puntano dritte al cuore della malavita internazionale e delle istituzioni».

Nonostante questo, Fonti, trafficante di droga condannato a 50 anni di carcere, poi diventato collaboratore di giustizia, si sente sereno: «La mia è stata una scelta di vita: mi sono pentito perché ho avuto ribrezzo di quanto fatto da malavitoso, dopodiché succeda quel che deve succedere».

Ecco perché non intende restare in silenzio. «Sono tanti i retroscena da chiarire», assicura. Tantopiù dopo sabato, quando è stato annunciato il ritrovamento lungo la costa cosentina della nave con i bidoni lunga circa 120 metri e larga una ventina: «In questo clima apparentemente più disposto alla ricerca della verità, voglio fornire un mio ulteriore contributo. In totale trasparenza. Senza chiedere niente in cambio, tranne il rispetto e la tutela della mia persona».

Con tale premessa, Fonti squaderna storie di gravità eccezionale e con particolari che, ovviamente, dovranno essere vagliati dagli investigatori. Il suo racconto parte dal 1992, quando l'ex boss spiega di avere affondato le navi Cunski, Yvonne A e Voriais Sporadais dietro indicazione dell'armatore Ignazio Messina.

«Nel dossier che ho depositato alla Direzione nazionale antimafia (pubblicato nel 2005 dal nostro settimanale), ho scritto che in quell'occasione abbiamo inviato uomini del clan Muto al largo di Cetraro per far calare a picco la Cunski, mentre ho precisato che la Yvonne A era stata affondata a Maratea», dice Fonti: «Quanto alla Voriais Sporadais, indicai che a bordo aveva 75 bidoni di sostanze tossiche, ma non segnalai il punto esatto dell'affondamento.


Oggi voglio precisare che la portammo al largo di Melito Porto Salvo, in provincia di Reggio Calabria, sulla costa jonica, e che a occuparsi materialmente dell'operazione fu il boss della zona Natale Iamonte». Di più: «Lo stesso Iamonte», prosegue Fonti, «si è dedicato spesso allo smaltimento in mare di scorie tossiche. Specialmente quelle che provenivano da ditte chimiche della Lombardia».

Nel caso della Voriais Sporadais, precisa, accadde tutto in una notte autunnale del 1992: «Io e il figlio di Natale Iamonte, di cui non ricordo il nome, salimmo sul motoscafo con un terzo 'ndranghetista che guidava e aveva una cassetta di candelotti di dinamite. Arrivammo al limite delle acque territoriali, montammo sopra la nave, facemmo portare a riva il capitano e l'equipaggio, dopodiché piazzammo i candelotti a prua e sparimmo indisturbati».

Fonti non ha problemi ad ammetterlo: «Era una procedura facile e abituale. Ho detto e ribadisco in totale tranquillità che sui fondali della Calabria ci sono circa 30 navi». E non parla per sentito dire: «Io ne ho affondate tre, ma ogni anno al santuario di Polsi (provincia di Reggio Calabria) si svolgeva la riunione plenaria della 'ndrangheta, dove i capi bastone riassumevano le attività svolte nei territori di loro competenza.


Proprio in queste occasioni, ho sentito descrivere l'affondamento di almeno tre navi nell'area tra Scilla e Cariddi, di altre presso Tropea, di altre ancora vicino a Crotone. E non mi spingo oltre per non essere impreciso». Ciò che invece Fonti riferisce con certezza, è il sistema che regolava la sparizione delle navi in fondo al Mediterraneo.

«Il mio filtro con il mondo della politica è stato, fin dal 1978, un agente del Sismi che si presentava con il nome Pino. Un trentenne atletico, alto circa un metro e ottanta con i capelli castani ben pettinati all'indietro, presentatomi nella Capitale da Guido Giannettini, che alla fine degli anni Sessanta aveva cercato di blandirmi per strapparmi informazioni sulla gerarchia della 'ndrangheta.

Funzionava così: l'agente Pino contattava a Reggio Calabria la cosca De Stefano, la quale informava il mio capo Romeo, che a sua volta mi faceva andare all'hotel Palace di Roma, in via Nazionale. Da lì telefonavo alla segreteria del Sismi dicendo: "Sono Ciccio e devo parlare con Pino". Poi venivo chiamato al numero dell'albergo, e avveniva l'incontro».

Il contenuto degli appuntamenti, era sempre simile. «L'agente Pino mi indicava la quantità di scorie che dovevamo far sparire», spiega Fonti, «e mi chiedeva se avessimo la possibilità immediata di agire». La maggior parte delle volte, la risposta era positiva. Ed era un ottimo affare: «Si partiva da 4 miliardi di vecchie lire per un carico, e si arrivava fino a un massimo di 30».

Soldi che venivano puntualmente versati a Lugano, presso il conto Whisky all'agenzia Aeroporto della banca Ubs, o in alcune banche di Cipro, Malta, Vaduz e Singapore. Tutte operazioni che svolgevamo grazie alla consulenza segreta del banchiere Valentino Foti, con cui avevamo un cinico rapporto di reciproca convenienza».

Quanto ai politici che stavano alle spalle dell'agente Pino, secondo Fonti, sarebbero nomi noti della cronaca italiana. «Mi incontrai più volte per gestire il traffico e la sparizione delle scorie pericolose con Riccardo Misasi, l'uomo forte calabrese della Democrazia cristiana», dice, «il quale ci indicava se i carichi dovessero essere affondati o seppelliti in territorio italiano o straniero. La 'ndrangheta, infatti, ha fatto colare a picco carrette del mare davanti al Kenya, alla Somalia e allo Zaire (ex Congo belga), usando capitani di nazionalità italiana o comunque europea, ed equipaggi misti con tunisini, marocchini e albanesi».

Rimane l'incontrovertibile fatto, aggiunge Fonti, «che la maggior parte delle navi è stata fatta sparire sui fondali dei nostri mari». Non soltanto attorno alla Calabria, «ma anche nel tratto davanti a La Spezia e al largo di Livorno, dove Natale Iamonte mi disse che aveva "sistemato" un carico di scorie tossiche di un'industria farmaceutica del Nord».

E non è finita. Secondo Fonti, un altro politico di primo piano avrebbe avuto un ruolo nel grande affare dei rifiuti pericolosi. «Si tratta dell'ex segretario della Dc Ciriaco De Mita, indicatomi a metà Ottanta da Misasi per trattare in prima persona il prezzo degli smaltimenti richiesti dallo Stato».

Stando al pentito, lui e De Mita si sono visti «tre o quattro volte» nell'appartamento del politico a Roma, dove il boss fu accolto «con una fredda gentilezza». Nella prima occasione, ricorda, «mi fece sedere in salotto e disse: "Sono soltanto affari..."; frase che mi ha ripetuto negli incontri successivi, come a sottolineare un profondo distacco tra il suo ruolo e il mio».

Fatto sta, continua Fonti, che «concordammo i compensi per più smaltimenti». Poi, quando l'affondamento o l'interramento delle scorie veniva concluso, «l'agente Pino ci segnalava la banca dove potevamo andare a riscuotere i soldi»". Denari accreditati «su conti del signor Michele Sità, un nome di fantasia riportato sui miei documenti falsi. Andavo, recuperavo i contanti e li consegnavo alla famiglia Romeo di San Luca, dove ricevevo la mia parte: circa il 20 per cento del totale».

Da parte sua, l'ex segretario della Dc Ciriaco De Mita nega qualunque rapporto con Fonti: «Smentisco nella maniera più netta», commenta, «le affermazioni di una persona che non credo di conoscere. Porterò questo individuo innanzi al tribunale per rispondere penalmente e civilmente delle sue calunniose dichiarazioni».

Vero è, specifica De Mita, «che Misasi era mio amico, e che abitava sotto di me, ma tutto il resto non ha assolutamente senso». Una replica alla quale seguono altri racconti dell'ex boss, che dopo il ritrovamento del mercantile sui fondali di Cetraro, non si limita a occuparsi dei retroscena di casa nostra, ma apre una pagina internazionale finora ignota sulla Somalia: «Avevo rapporti personali», dice, «con Ibno Hartomo, alto funzionario dei servizi segreti indonesiani, il quale contattava me e la 'ndrangheta per smaltire le tonnellate di rifiuti tossici a base di alluminio prodotte dall'industriale russo Oleg Kovalyov, vicino all'allora agente del Kgb Vladimir Putin».

Un lavoro impegnativo per le dimensioni, spiega Fonti, gestito in due fasi: «Nella prima caricavamo le navi in Ucraina, a Kiev, le facevamo passare per Gibuti e le dirigevamo a Mogadiscio oppure a Bosaso. Nella seconda fase, invece, le scorie venivano affondate a poche miglia dalla costa somala o scaricate e seppellite nell'entroterra».

Facile immaginare le conseguenze che tutto ciò potrebbe avere avuto sulla salute della popolazione. E altrettanto facile, secondo Fonti, è spiegare come le navi potessero superare senza problemi la sorveglianza dei militari italiani, che presidiavano il porto di Bosaso: «Semplicemente si giravano dall'altra parte», racconta il pentito.

«Anche perché il ministro socialista Gianni De Michelis, che come ho già raccontato all'Antimafia gestiva assieme a noi le operazioni, era solito riferirci questa frase di Bettino Craxi: "La spazzatura dev'essere buttata in Somalia, soltanto in Somalia". Naturale che i militari, in quel clima, obbedissero senza fiatare».

Allucinante? Incredibile? Fonti allarga le braccia: «Racconto esclusivamente episodi dei quali sono stato protagonista, e aspetto che qualcuno si esponga a dimostrare il contrario». Magari, aggiunge, «anche su un altro fronte imbarazzante: quello delle auto sulle quali viaggiavo per recuperare, nelle banche straniere, i soldi avuti per gli affondamenti clandestini dei rifiuti radioattivi».

Gliele forniva «direttamente il Sismi», dice, «con la mediazione dell'agente Pino. Per salvarmi la vita, in caso di minacce o aggressioni, mi sono segnato il tipo di macchine e le matricole diplomatiche che c'erano sui documenti».

In un caso, «ho usato una Fiat Croma blindata con matricola VL 7214 A, CD-11-01; in un altro ho guidato un'Audi con matricola BG 146-791; e in un altro ancora, ho viaggiato su una Mercedes con matricola BG 454-602. Va da sé, che ci venivano assegnate auto diplomatiche perché non subivano controlli alle frontiere».

Ora, dopo queste dichiarazioni, «i magistrati avranno nuovi elementi sui quali lavorare», conclude Fonti. «Troppo facile e troppo riduttivo», sostiene, «sarebbe credere che tutto si esaurisca con il ritrovamento nel mare calabrese di un mercantile affondato». Questa, aggiunge, non è la fine della storia: «È l'inizio di un'avventura tra i segreti inconfessabili della nostra nazione. Un salto nel buio dalle conseguenze imprevedibili».

[17-09-2009]

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la "verità inclusa" del Moby Prince...
Inviato da: Fabio Piselli
01/09/2009 3.59

http://www.fabiopiselli.com/


i prossimi mesi saranno quelli che, presumibilmente, ci consentiranno di ricevere dalla procura procedente una risposta definitiva relativamente le indagini giudiziarie condotte sulla tragedia che oltre 18 anni fa ha causato la morte di almeno 140 persone; risposta probabilmente più compatibile con una verità storica dei fatti che non giudiziaria

la riapertura delle indagini, grazie all'impulso del Dottor Palermo, ha sviluppato dei filoni investigativi tali da raggiungere delle conoscenze importanti, non sconosciute ma rese ignote per tutti questi anni da parte di chi aveva il dovere di evidenziarle per offrire ai parenti delle vittime tutte le opportunità di ricerca delle ragioni della morte dei loro cari

ho sempre detto, assumendone le piene responsabilità, che in questa faccenda i militari in generale, italiani e stranieri, hanno avuto un ruolo importante, perchè avrebbero potuto sin da subito favorire delle conoscenze mantenute invece segrete utili se non a riconoscere delle responsabilità quantomeno ad escluderne altre, ad iniziare dalla nebbia o dalla ventilata imperizia del comandante Chessa, perito nella tragedia

quando i militari tacciano c'è sempre qualche ragione di sicurezza, qualche superiore interesse di Stato, qualche significativa causa che la collettività non deve conoscere, spesso più per delle regole tutte interne le amministrazioni militari che per lo "spessore del segreto", senza capire che è proprio lo "spessore del segreto" che stimola la collettività a formulare le ipotesi più fantasione, rischiando di entrare in un circuito autistico di disegni complottistici o di conflittuali schieramenti

il segreto è ciò che ha caratterizzato le grandi stragi del nostro paese, siamo sostanzialmente cresciuti col trauma del segreto, del non dover sapere le ragioni dei grandi botti, degli inspiegabili incidenti, dagli aerei ai traghetti, tanto da patire una sorta di "sindrome di Ustica" che si aggrava ad ogni nuovo tragico evento insoluto o dimenticato per decenni negli scatoloni lasciati chiusi negli uffici di qualche procura

auguriamoci perciò che il pool di magistrati livornesi possa offrirci quello che nessuno fino ad oggi è riuscito a fare nelle indagini delle grandi tragedie, offrici il "non segreto", che non significa la verità giudiziaria, ma che significherebbe un cambiamento importante per la collettività di questo paese

sarebbe bello assistere ad una conferenza stampa nella quale dei magistrati abbiano il coraggio di superare ogni vincolo di segretezza, per dire ai cittadini le ragioni che hanno meritato il segreto stesso

sarebbe bello ascoltare parole certe che sappiano spiegarci che quella notte mentre il Moby Prince bruciava, mentre almeno 140 persone stavano morendo, non c'era la nebbia che c'hanno imposto per anni

che quella notte c'erano più navi militarizzate dalla Difesa americana cariche di armi ed esplosivi, rese segrete ed avallate tali dalle autorità italiane

che quella notte c'erano presumibilmente dei militari italiani nell'area d'interesse della tragedia per ragioni legate ad altre navi con carichi segreti, forse armi, forse rifiuti tossici, dirette in Somalia

che quella notte c'erano orecchie elettroniche ed occhi umani capaci di captare e di vedere quel che presumbilmente è ancora oggi documentato in qualche archivio militare, certamente americano ma forse anche italiano

questo non significa che dei militari o dei trafficanti o dei soggetti terzi abbiano avuto delle responsabilità dirette nelle cause della tragedia che ha ucciso almeno 140 persone; ma fanno parte delle con-cause, lo dico ora come l'ho testimoniato a suo tempo assumendomene le dovute responsabilità, che probabilmente dovrò affrontare avanti l'assenza di una verità giudiziaria, motivo per cui coloro che ho indicato mi chiederanno il conto, magari solo per essere stati messi in imbarazzo davanti ai propri segreti durante i confronti o gli interrogatori che li ho costretti a subire

rimango certo del fatto che se vogliamo almeno iniziare ad abbattere quel muro di gomma che ha caratterizzato le grandi tragedie italiane, quella di Ustica ne è un chiaro esempio, qualcuno debba necessariamente assumersi il rischio di restare sotto il suo peso

questo è ciò che coscientemente ho fatto con la mia testimonianza, che è un dovere e non un atto eroico; ho cercato di abbattere quel muro; che altro non era che il "segreto" che impediva non di conoscere la verità assoluta, ma di escludere le altre ipotizzate, consentendo così di approfondire degli indirizzi investigativi invece abbattuti dalle "verità incluse", come la nebbia per esempio

di fronte al "non sapere" è corretto ipotizzare uno scenario a 360°, dal semplice evento imprevisto ed incidentale alle ipotesi più complottistiche, visto anche la storia del nostro paese; quel che non è corretto fare, a mio avviso, è includere una verità per escludere le ipotesi contrarie

la "verità inclusa" non serve infatti ad escludere una ipotesi di verità, ma ad impedire le ipotesi di verità contrarie a quella inclusa

questo è il vero muro di gomma eretto a tutela non del segreto ma della "verità inclusa" che presumibilmente nasconde dei segreti

questa è la ragione per la quale delle semplici ipotesi di verità, magari anche fantasiose, alla fine a causa di questo meccanismo diventano delle ipotesi di complotto

con la mia testimonianza ho desiderato tentare di abbattere la "verità inclusa" introducendo un'altra ipotesi di verità, degna di approfondimento in forza di come è stata raggiunta, nettamente contraria ed opposta alla "verità inclusa"

il muro di gomma lo si abbatte con l'abbattimento dei segreti, questo ho cercato di fare, cosciente del rischio, abbattere dei segreti che ho ritenuto di riconoscere per le ragioni del mio lavoro e degli eventi in cui ero coinvolto, cosciente del fatto che laddove fossi riuscito a dimostrare una verità diversa sarei stato "un eroe" in caso contrario solo un "presunto millantantore"

personalmente considero i segreti del Moby Prince un muro di sterco e non di gomma, perchè su quello di gomma ci si rimbalza, con l'opportunità di tornare a scontrarsi, in questo caso contro il muro di sterco eretto a tutela di cosa c'era intorno sopra e sotto il Moby Prince ci si sporca e basta

la procura di Livorno ha una grande responsabilità di fronte alla collettività italiana, quella di creare un precedente, offrendo una non-verità giudiziaria ma evidenziando allo stesso tempo una verità storica

ha una scelta che richiede coraggio per essere compiuta, perchè potrebbe tranquillamente dire cosa non sono riusciti a dimostrare rispetto le ipotesi investigative, perchè prive di elementi probatori idonei per l'attribuzione di responsabilità precise, concludendo l'indagine con una archiviazione e tutto finirebbe nei tecnicismi giuridici

oppure può offrire questo ma con l'aggiunta del riconoscimento della verità storica, dicendo cosa è accaduto quelle sera intorno al traghetto, prima durante e dopo le fiamme, come presumibilmente emerso dalle indagini, fatti che purtroppo non hanno quel valore tecnico-giuridico per essere considerate prove all'interno di un dibattimento per cui tutto finisce con una tecnica richiesta di archiviazione

ai fini giuridici cambierebbe poco ma sarebbe un segnale importante la presa di posizione di una procura della Repubblica contro i detentori di segreti o coloro che impongo la "verità inclusa"

consentirebbe una profonda iniezione di fiducia nei confronti di una magistratura ed un apparato investigativo debole e burocratizzato; debole soprattutto per la mancanza di testimonianze, specialmente quelle contro i muri di gomma...

Fabio Piselli