venerdì 10 settembre 2010

Robbe de gobbi


Da Dagospia.

Ma quale gaffe! Vedendo ieri sera, a un'ora del cazzo (in prima serata il cosiddetto servizio pubblico spara in onda solo pecionerie e sconcerie), la fortissima ed emozionante puntata confezionata da Giovanni Minoli sull'assassinio di Giorgio Ambrosoli, balza evidente la coerenza del pensiero di Giulio Andreotti.


Essì, fa male alle anime belle, ma quel terribile "se l'andava cercando" è terribilmente vero. In breve e in greve, il Gobbo ha fatto capire - e chi sa l'ha capito benissimo - che solo un kamikaze votato al suicidio poteva infilarsi nella guerra tra due "mafie". Potentissime.

Da una parte, la finanza cattolica che faceva capo economicamente a Michele Sindona e politicamente al Divo Andreotti. Dall'altra, la massoneria dei poteri forti internazionali che aveva come suo referente italiano Il presidente di Mediobanca Enrico Cuccia (un tipino potentissimo che poteva permettersi di silurare anche le volontà di Gianni Agnelli: infatti il fratello Umberto fu accantonato per far posto a Cesare Romiti alla guida della Fiat).

I nostri duellanti si conoscevano benissimo essendo nati e cresciuti nella stessa strada di un paesone siculo a pochi kilometri da Messina, Patti. Insieme avevano condiviso gioventù e passione per il quattrino e il potere. Il decollo meneghino per Cuccia arriva dal matrimonio con Idea Nuova Socialista, un bel nome affibbiato dal di lei padre Alberto Beneduce, che fondò durante il fascismo (1933) il carrozzone dell'Iri, Istituto per la Ricostruzione Industriale.

Ecco: l'avvocato Giorgio Ambrosoli, curatore fallimentare della bancarotta di Sindona, non comprese che mettersi in mezzo tra Sindona e Cuccia, era come infilarsi in una sparatoria di picciotti armata di lupara.


La guerra tra massoni bianchi e massoni neri, nel documentario di Minoli, esplode sul finale quando vanno in onda le immagine della deposizione di Cuccia.

A un anno dall'uccisione di Ambrosoli, il presidente di Mediobanca va al processo e, ingobbito come Andreotti, racconta tranquillo, come un pisello nel suo baccello, il suo incontro a New York con il suo ex compagno di giochi Sindona, durante il quale il bancarottiere siculo gli annuncia di voler ammazzare Ambrosoli (vedi l'articolo che segue di Barbacetto).

Ebbene: perché la notizia "criminis" non viene denunciata da Cuccia a qualche Beria di Argentine suo amico in tribunale? Magari la vita di Ambrosoli poteva essere blindata, magari salvata.

Sempre ieri sera, si è appalesata la silhouette massiccia dell'avvocato di Sindona Guzzi per chiarire che il fallimento era semplicemente "coatto" perché le attività erano superiori alle passività e Sindona aveva la possibilità di rifondere il 65 per cento del debito (un fatto ammesso durante il programma da un collaboratore di Ambrosoli). Quindi, i termini per un patteggiamento c'erano tutti. No, lo scopo di Cuccia era la cancellazione di Sindona e la messa in mora del Vaticano.

Quando poi, in uno stralcio di intervista in carcere, Minoli chiede a Sindona del suo ex compare, si sente rispondere così: "Cuccia è il padrone del tribunale di Milano". Ah, ecco: forse ora è più chiaro perché Tangentopoli ebbe il suo epicentro sotto il Duomo anziché nel luogo deputato della politica, Roma, porto delle nebbie...

Risulta che Sindoma temeva l'estradizione dal carcere americano perché era convinto di fare la fine di Pisciotta. Cosa che regolarmente accadde quattro giorno dopo la condonna all'ergastolo.




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IL RITRATTO GIORGIO AMBROSOLI - MILANO 1979, LA MORTE ANNUNCIATA DI UN UOMO PER BENE
Gianni Barbacetto per "il Fatto Quotidiano"

L'uomo che "se l'andava cercando", la trovò, la morte, la notte dell'11 luglio 1979. Fu raggiunto da tre proiettili calibro 357 magnum davanti al portone di casa, in via Morozzo della Rocca a Milano. Nessun politico ai suoi funerali, nella basilica di San Vittore, nessuna autorità di governo, nessun uomo della comunità degli affari milanese.

Erano presenti soltanto il governatore della Banca d'Italia Paolo Baffi e alcuni magistrati. Milano non si accorse della morte del suo "eroe borghese", ucciso da un sicario mafioso sul finire degli anni Settanta, come oggi non si è accorta di essere diventata la capitale della 'Ndrangheta.

Giorgio Ambrosoli era un giovane avvocato milanese, brillante e tenace. Nient'affatto sovversivo, monarchico anzi, militante, da giovane, nell'Umi (l'Unione monarchica italiana). È a lui che il governatore della Banca d'Italia Guido Carli affida, nell'autunno del 1974, la banca di Michele Sindona posta in liquidazione coatta. Il commissario liquidatore, assistito dal maresciallo della Guardia di finanza Silvio Novembre, comincia il suo lavoro con normale sollecitudine.

Analizza le carte, fa e rifà i conti. In breve svela i trucchi, scopre i giochi di prestigio del grande illusionista che già aveva stregato (e finanziato) molti, tra cui quel Giulio Andreotti che lo aveva definito "salvatore della lira". Alla fine del 1975, Ambrosoli arriva al cuore del sistema: alla Fasco, la società in Liechtenstein che Sindona sperava restasse fuori dal crac.

Intanto si accorge di essere entrato in un gioco pericoloso. Constata che le manovre per salvare Sindona procedono su due piani paralleli. Uno è visibile, quello delle defatiganti trattative politiche e delle puntigliose iniziative finanziarie. Il secondo è sotterraneo: quello delle minacce, delle intimidazioni, delle telefonate anonime, degli avvertimenti mafiosi. È a questo punto che Ambrosoli scrive una lettera alla moglie Annalori destinata a essere aperta soltanto in caso di morte.

È un testamento morale. "Qualunque cosa succeda, tu sai che cosa devi fare e sono certo saprai fare benissimo. Dovrai tu allevare i ragazzi e crescerli nel rispetto di quei valori nei quali noi abbiamo creduto".

Queste parole sono scritte il 25 febbraio 1975, solo un anno dopo la sua nomina a commissario liquidatore e quattro prima della sua morte. Ambrosoli ha dunque ben chiaro il senso del suo impegno. "È indubbio che, in ogni caso, pagherò a molto caro prezzo l'incarico: lo sapevo prima di accettarlo e quindi non mi lamento affatto perché per me è stata un'occasione unica di fare qualcosa per il Paese.

Ricordi i giorni dell'Umi, le speranze mai realizzate di far politica per il Paese e non per i partiti: ebbene, a quarant'anni, di colpo, ho fatto politica e in nome dello Stato e non per un partito". Far politica per il Paese per Ambrosoli significa opporsi ai piani di salvataggio che scaricano i costi del crac (almeno 250 miliardi di lire dell'epoca, circa 800 milioni di euro odierni) sulle spalle dei contribuenti.

Sono i piani sostenuti dagli uomini di Andreotti (e della P2): il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Franco Evangelisti, il ministro dei Lavori pubblici Gaetano Stammati, i consiglieri del Banco di Roma Roberto Memmo e Fortunato Federici. Si danno da fare anche Licio Gelli, Massimo De Carolis e, senza troppa convinzione, il banchiere dell'Ambrosiano Roberto Calvi, che in realtà aspira a prendere il posto di Sindona.

Se il piano visibile è pesante, quello sotterraneo è feroce.

Ambrosoli è bombardato da minacce, da telefonate anonime. Ne riceve almeno sette tra il 28 dicembre 1978 e il 12 gennaio 1979. L'ultima: "Non la salvo più, perché lei è degno solo di morire ammazzato come un cornuto! Lei è un cornuto e un bastardo!". Dopo il gennaio 1979 le minacce si fermano.

Tanto che Ambrosoli spera che il pericolo sia passato. Invece la decisione è stata presa, il killer è già all'opera. Sindona lo confida a Enrico Cuccia, l'altro grande nemico del bancarottiere, che va a incontrarlo a New York, in gran segreto, il 10 aprile 1979: "Sin-dona aveva dichiarato che io potevo essere più utile da vivo che da morto", scrive Cuccia nel suo puntiglioso "verbalino" dell'incontro, "e aveva quindi fatto sospendere specifiche iniziative nei miei confronti. Invece, Sindona riteneva di doversi assumere la responsabilità morale di fare scomparire Ambrosoli, senza lasciare alcuna traccia". Ma Cuccia tiene per sé quel terribile avvertimento che forse avrebbe potuto salvare Ambrosoli.

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